"Ma non posso ignorare il fondo di verità che già notavo da bambina, anche se lo facevo attraverso delle cose irrilevanti: a casa mia non si investe. A casa mia non ho un futuro. A casa mia non posso sperare."

È il 20 maggio 2022. Allo Stadio San Vito si è appena conclusa la finale di Serie B Cosenza-Vicenza e la dura legge del gol decreta una vittoria schiacciante dei lupi sui lanerossi con un punteggio di 2-0. Nello studio di Diretta Biancorossa la partita lascia l’amaro in bocca: il Vicenza è retrocesso in Serie C dopo soli due anni, è un duro colpo. Ma lo spettacolo deve proseguire, con le bandiere del Vicenza ancora alte in mezzo al tripudio di striscioni rossoblu. Andrea Ceroni preme la cuffia all’orecchio, cercando di comunicare con lo studio. Un paio di volti sconosciuti passano in rassegna in telecamera; tra loro, un padre con suo figlio in braccio. L’inviato avvicina il microfono al bambino, che incespica, poi afferma: “Lupi si nasce”. I due escono di scena, salutano. La conduttrice, Sara Pinna, alza le sopracciglia e fa un mezzo sorriso. “E gatti si diventa. Non preoccuparti che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro”.

Sentiamo di aver capito tutto, non c’è niente da spiegare: ecco, l’ennesimo settentrionale razzista e millantatore che tratta con sufficienza coloro su cui basa la sua ricchezza; ecco, l’ennesimo meridionale che urla al razzismo anche quando gente perbene fa una battuta. Le parti sono così chiare, non è necessario sentire ciò che l’altro ha da dire. Si accende la polemica per giorni: al di là della pressione mediatica fatta alla presentatrice sui social – in maniera del tutto offensiva, tanto da aver coinvolto tribunali, o ciò si vagheggiava – per delle scuse pubbliche, alla fine Pinna espone il suo punto di vista. Da lì, ai posteri l’ardua sentenza: il chiacchiericcio passa in sordina, tra chi perdona e chi condanna, tacciando di poca sincerità la dichiarazione.

Non si perdona chi ha mostrato di essere razzista e pure ipocrita – sottolineando le origini sarde della presentatrice e il supposto tradimento. Questo è lo stigma che ha bollato la vicenda al Sud. Dobbiamo partire da qui per analizzare a mente fredda ciò che ha davvero causato l’escalation sul motto di spirito partito da una TV locale per diventare un caso nazionale, cogliendo in contropiede entrambe le parti coinvolte. In realtà c’era un po’ da aspettarselo: siamo figli del nostro tempo, dell’indignazione facile e con le manie di persecuzione; ci arroghiamo il diritto di infischiarcene del quadro generale, dire democraticamente la nostra e cancellare un individuo per uno scivolone rovinandogli la vita senza un dialogo perché tutto ci è chiaro, o di utilizzarlo solo quando ci fa comodo.

Quando poi si sente puzza di sangue sgorgato da una ferita ancora non del tutto rimarginata, diventa putiferio. Questo è il caso, ma non è la sede adatta per stabilire chi delle due fazioni si sia fatta troppo trascinare – se Pinna dinanzi al boccone amaro della sconfitta, che per nulla giustifica l’affermazione fuori luogo che ha fatto – oppure i calabresi, che comunque non si sono resi migliori reagendo volgarmente al fatto. È piuttosto il momento per aprire una riflessione su cui ancora nessuno si è soffermato.

Partiamo dal presupposto che alla base del razzismo stiano dei preconcetti, degli stereotipi. Uno stereotipo è un’opinione riferita a gruppi sociali che riduce un fatto o un caso, considerato sistemico, ma il più delle volte isolato, alla generalizzazione e viene riproposta attraverso espressioni o proverbi, reiterata e modificata nel tempo, fino a diventare parte dell’immaginario comune. È un’abitudine che l’uomo si porta probabilmente dalla sua nascita e dell’antichità più recente ne abbiamo anche le prime fonti scritte – non volermene, Erodoto, ma sto parlando proprio di te. Oggigiorno sappiamo che molte delle informazioni che Erodoto inseriva nelle sue Storie erano dei grandissimi voli pindarici, delle dicerie che non stavano né in cielo né in terra; eppure per molto tempo sono state considerate valide, sia dai suoi contemporanei che riferivano certe informazioni, sia da chi Erodoto poi si ritrovava a leggerlo, a studiarlo, prenderlo come esempio.

Basti comunque pensare che i luoghi comuni hanno fatto parte dei libri di storia fino a relativamente poco tempo fa. Realizzarlo ci sembra quasi aberrante. Questo dato ci serve ironicamente per sfatare il mito secondo cui lo stereotipo nasce dal basso e appartiene a un contesto popolare. Nessuno è davvero salvo dal pregiudizio. Non è prerogativa di una classe, di una comunità, di un ruolo: fa invece parte di ogni realtà.

Da calabrese che frequenta molto il Veneto, una delle sue università e la sua gente, posso dire che sto apprendendo tante cose sul territorio. La mia conoscenza è molto ridotta, varia dalle lezioni di storia generale alle domande fatte al mio fidanzato, vicentino doc, ben immerso nella vita della sua città. È grazie a lui se ho scoperto l’esistenza di stereotipi particolari riguardo i veneti e in particolare quelli sulla sua gente: magnagati, “mangia-gatti”. Scoprire di questa nomea è stato curioso. Immaginavo ci fossero delle storie da qualche parte e dunque ho fatto un po’ di ricerche: il termine è sicuramente utilizzato in forma scritta in una filastrocca antica pubblicata nel 1879, dove non si risparmiano né complimenti né insulti alle città vicine del Nord-Est. Prima di leggerla, avevo sempre pensato che in Veneto dovessero essere tutti abbastanza uniti per avere il coraggio di urlare al mondo di voler rifondare la Serenissima e diventare indipendenti. Poi ho scoperto che senza un nemico comune, i veneti si odiano tra loro e se ne dicono di ogni. Ad ogni modo il testo non dà un’interpretazione vera di questo termine e altre fonti parlano di fatti leggendari o troppo generali: un decreto del 1943 che impediva alla popolazione italiana di uccidere i gatti per consumarne carni, grasso e pelle; una versione propagandata dei moti risorgimentali del 1848; due varianti dell’invasione dei topi di Vicenza sotto la Serenissima nel XVIII secolo; un gioco di parole con una macchina d’assalto che i vicentini usavano nel Cinquecento in una guerra contro Padova e Venezia. Addirittura si arrivano alle ipotesi di linguistica: il termine potrebbe essere una storpiatura grottesca della parlata antica dei vicentini rispetto ai veneziani.

Bazzicando tra tutti questi racconti però mi sono imbattuta nel libro di viaggi Voyage d’un François en Italie di Jérome Lalande che mi ha colpito. C’è una parte che ha dedicato ai vicentini: montanari selvatici, violenti, tendenti all’omicidio, mangiagatti. Vi suona familiare?

I calabresi possono ben dire di compatire i vicentini su questo, a giudicare di quante Cesare Lombroso ne disse. Ed è bene tenere a mente che con Lombroso il problema non è solo il contenuto, per l’epoca considerato luminare, ad essere infamante; è piuttosto la validità scientifica che si intendeva dare allo studio ad essere grave, il suo presupposto, che ha chiaramente dato un pretesto per l’insorgenza dell’antimeridionalismo: affidarsi alla fisiognomica per definire il profilo criminale “alla nascita”, tenendo in considerazione che molti tratti fisici dipendono dalla genetica a livello etnico, significa condannare interi popoli. E la sua teoria ultima – i meridionali più inclini al crimine rispetto ai settentrionali – ne è la prova.

Non ci facciamo mica mancare qualcosa, noi terùn. Sempre al centro dell’attenzione: c’è chi ci reputa cavie da laboratorio, chi dei gran fannulloni, chi ci augura di scoppiare sotto al Vesuvio, chi pensa che la nostra sia una terra amena e vada preservata. A volte ci ammirano. A volte dicono che siamo dei veri idioti senza memoria. Posso concordare su quest’ultima parte per le opinabili scelte politiche in questi ultimi anni.

Mi torna in mente l’inchiesta famosissima di Brando Giordani e Ugo Zatterin del 1961 chiamata “Meridionali a Torino”. La vidi per la prima volta quando avevo poco più di dodici anni. Mi segnò molto. Era il periodo in cui dilagavano video di politici verdi razzisti e antimeridionali e io sono sempre stata molto sensibile all’argomento. Non sopportavo l’idea di essere definita in base alla regione da cui provenivo, lo trovavo privo di senso. Non sopportavo voi. Senza rendermene conto però tutto ciò che mi circondava mi aveva influenzato: ho iniziato a odiare di contro la mia terra, perché io non volevo identificarmi con qualcosa di così anonimo, ai margini della società, essere come quei terroni che loro descrivevano. Vedevo davvero la scarsa apertura mentale di cui ci accusavano in famiglia, in paese; senza mettere in conto la mia generale frustrazione e invidia nei confronti di tutto il Veneto. Vedevo passare in TV nomi e immagini di città come Milano, Torino, Verona, Venezia, per eventi o stagioni di villeggiatura: ingenuamente, ma colma di rabbia, mi chiedevo perché non mostrassero la mia città, Cosenza. Mi chiedevo perché non mostrassero la città della mia infanzia, Reggio Calabria. Perché non ci fosse mai qualcuno di vicino, così da poter dire “Tal dei tali è stato qui, ho avuto la possibilità di vederlo”. Tutto questo ha perso di senso guardando “Meridionali a Torino”, ascoltando voi settentrionali parlare. Avevo un motivo più serio per odiarvi. Un motivo in più per camminare tra voi e dimostrare di essere qualcuno che ridarà la voce alla storia della mia patria, in un modo o nell’altro, a furia rompersi le unghie e le ossa scavando in quella terra su cui ho sputato, su cui avete sputato.

Oggi continuo a farlo, ma non per voi. Oggi non vi odio più. Oggi non ho più pregiudizi. Oggi cammino tra voi, ma sia la Calabria che il Veneto sono in qualche modo famiglia. Insorge ancora in me la voglia di confrontarmi a suon di insulti con un settentrionale razzista e millantatore, è irrefrenabile. Ma non posso ignorare il fondo di verità che già notavo da bambina, anche se lo facevo attraverso delle cose irrilevanti: a casa mia non si investe. A casa mia non ho un futuro. A casa mia non posso sperare.

A casa nostra non c’è spazio per noi.

Non che fuori di casa sia meglio, ma siamo disposti a concederci il beneficio del dubbio, a sognare di addentrarci in qualcosa di sconosciuto e trovare dal nulla l’opportunità della nostra vita e spesso il luogo in cui ci ritroviamo è proprio la Pianura. Naturalmente, non senza fare sacrifici: vivere lontano, imparare lingue nuove, acquisire competenze e conoscenze più disparate. Non basta una vita per poter essere davvero soddisfatti. Forse un giorno torneremo a casa nostra per renderla un posto migliore, per investire, dare futuro, dare speranze.

Dopo questo percorso sopraggiunge una domanda piuttosto spontanea: abbiamo detto che il razzismo nasce da uno stereotipo, lo stereotipo da una diceria fantasiosa che però ha una sua origine da qualche parte.

Ma nell’idea del meridionale che va al nord a cercare fortuna, di stereotipato, non c’è niente.

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