“Io sono in una fase di litigio con me stesso così forte e duro, da rimanere in silenzio con gli altri, ma da fare casino nella mia testa. Che gli altri si chiedano come sto, porta in me solo la voglia irrefrenabile di rispondere “sto bene”, ma dentro, sto litigando.”

Non so a voi ma io ho sempre litigato.

Con chiunque. Con il compagno di banco che mi rubava le penne e le matite; con il docente troppo pretenzioso e poco chiaro ma che si ergeva a figura onnisciente; con la signora in fila alla cassa del supermercato che non mi faceva passare, pur vedendo che avevo un solo filone di pane in mano; finanche con il signore anziano che preferisce non raggiungere i 20 km/h in auto su una strada completamente sgombra per precauzione.

Ricordo, però, che quando ero ragazzino, ho sempre avuto tanto timore di discutere con gli altri. Pennsavo, guardando gli altri, che alzare la voce fosse il principio base di un buono scontro: più decibel elevati raggiungi, più sei vicino alla vittoria e puoi ricevere il tuo premio, una sana dose di gongolamento cronico e una medaglia d’oro ideale intorno al collo.

È questo ciò che si vince da una diatriba ben giostrata, in cui la strategia d’attacco è l’unica che esiste, tendi imperterrito ad attaccare, sentendoti allo stesso tempo ferito dal contrattacco, ma pur sempre galvanizzato dall’orgoglio che riempie i bulbi oculari di sangue e ti porta a sferrare l’attacco finale.

Sia chiaro, non ho mai “alzato le mani”, ma non nego che tante volte un paio di ceffoni li avrei voluti sganciare, spesso per meritocrazia e a volte per semplice “voglia di far male”.

Tutto si nasconde lì, che si riesca a mantenere o meno la calma in una battaglia: siamo pronti a ferire e fare del male perché lo vogliamo.

Vogliamo difenderci? Ne sono certo, ma temo che sia la voglia di fare male a muovere i nostri gesti, che siano fatti di parole o delle suddette sberle.

Non sono uno psicologo e non potrei mai dire se si tratti unicamente di qualche cosa nascosta nei meandri del mio cervello, ma siamo nati per difendere il nostro spazio e superare ogni giustificazione possibile per garantire la realizzazione del nostro obiettivo.

In questi anni, nella lunga serie dei litigi che mi porterebbero ad essere sulla lista dei cattivi di Babbo Natale, alcuni hanno portato a galla degli atteggiamenti che non sapevo nemmeno di avere. Ho dovuto fare un grande lavoro per cercare di capire e analizzare ogni mia risposta, ogni mio comportamento, ma è ancora molto dura.

Avete mai provato a guardarvi dall’esterno mentre discutete con qualcuno? La vena che si evidenzia sulla fronte, gli occhi sgranati in segno di paura e dei gesti (all’italiana oserei dire) che accompagnano musicalmente ogni parola e ogni accento del discorso.

Non è un bel vedere… E se aggiungete il volume, beh, dovrete assicurarvi di essere soli e che nessuno possa sentirvi se no volete ridurne l’intensità.

Io sono passato dal banco della frutta (“signora, i limoooooniiiiii), al silenzio. Temo di riempire il mio interlocutore con parole e sguardo di sfida, senza ricadere in gesti inconsulti e affrettati, che potrebbero portarmi ad esagerare e a buttare all’aria… Il mio avere ragione, la mia vittoria.

Ma diciamola la verità! Noi non lo facciamo affatto perché vogliamo essere gentili, carucci e benevoli con chi abbiamo dall’altra parte: lo facciamo perché in fin dei conti, alla fine, vogliamo vincere e vogliamo pure che gli altri ci confermino la cosa. Ora, non sarà per tutti così, ma se ti ritrovi in questo atteggiamento, noi sí che siamo degli insicuri.

Dicevo prima, il silenzio. Preferisco parlare è vero, ma se dall’altra parte viene vomitato qualsiasi pensiero, indipendentemente dal fulcro della questione, io non proferisco parola, ricadendo in quell’atteggiamento di vittima che ha bisogno di cure (e che non si accontenta e non si accontenterà mai di queste cure). Ma se smetto di discutere, volto le spalle e me ne vado, è finita. Puoi voler discutere quanto vuoi, ma il mio interesse si sgretola, istantaneamente.

Perché vi racconto di me queste cose? Perché come sempre, mi piace farmi male.

Perché anche qui sembra io stia litigando con il foglio word che ho di fronte, eppure non sto facendo altro che litigare con me stesso, mentre vorrei urlarmi “sei un cretino! Riprenditi!”.

Il bello di un litigio è fare pace. Stronzate.

Il bello di un litigio è litigare.

Litigare con chi hai davanti fino a perdere la voce per le troppe parole, litigare fino a quando quel peso sullo stomaco diventa così leggero da poter tornare a respirare, litigare senza ridursi a non dire tutta la verità, litigare contro sé stessi, urlandosi quanto disprezzo si provi, a volte, per quell’atteggiamento che odi tanto, ma che assumi spesso.

Quel disprezzo, quando lo senti, è l’inizio del cambiamento, dell’accettazione, o anche di qualcosa di più.

Io sono in una fase di litigio con me stesso così forte e duro, da rimanere in silenzio con gli altri, ma da fare casino nella mia testa. Che gli altri si chiedano come sto, porta in me solo la voglia irrefrenabile di rispondere “sto bene”, ma dentro, sto litigando.


Pensavo di odiare il litigare con me… E invece sapete che vi dico? So tenermi testa, anche se alcune volte, quei ceffoni me li vorrei tirare da solo.

Ragazzi, incazzatevi, senza freni, con la testa, con il cuore, con le mani, con ogni briciolo di pelle, perché in quel momento, state iniziando (forse) ad amarvi.

Buona cruda e veemente rabbia. Io, nel frattempo, continuo a sviscerare il caos nella mia testa.

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