Un film per invertiti (come me) e non

"Il mondo omosessuale, quello dei pederasti, alle volte ninfomani ed anormali, nel 1968, si estendeva nelle case, negli alberghi, nei bagni dei parchi delle grandi città ed era difficile, troppo difficile, poter uscire allo scoperto."

Mentre quel figo di Tuk Watkins ci ricorda che giorno 2 ottobre, ore 8 EST, ci sarà un sip-in in un famoso bar di NYC per vedere il nuovo film di Netflix “The boys in the band” (uscito il 30 settembre scorso), io devo ancora riuscire a chiudere quella mia vecchia insipida boccaccia per l’emozione che ho provato guardando questo pot-pourri di glitter, stereotipi e meravigliosa omosessualità mista a repressione.

Pensatemi qui a scrivere, un po’ spinto dal mio essere così invertito, sorseggiando del tè ormai freddo, tra gridolini senza senso e svariati “adoro!”, un’analisi di questa pellicola che ha dipinto me e tutte le mie personalità in circa 122 minuti.
Personalità che riconosco, ma non accetto completamente.

“The boys in the band”, film ambientato nel 1968, anno di nascita della Charlie’s Angel Lucy Liu e del poliziotto Ricky Memphis, è l’espressione di una realtà che ancora oggi non è del tutto cambiata e che mostra uno spaccato culturale non indifferente: uno di quelli che ti porta a sbagliare e invertire i pronomi personali e a capire se, tanto per citare Tommaso Zorzi, sia “Adua del Vesco o Gabriel Garko a portare la gonna”.

Nove attori sensazionali, omosessuali nella vita, omosessuali nella finzione, che si trovano a dover recitare ed impersonare il proprio alter ego o qualcosa da loro molto lontano. Chi può dirlo; eppure la riuscita di questo film è pari, anzi nettamente superiore a Cristina D’Avena quando impersonò Licia, con quel bonazzo di Mirko e il suo ciuffo rosso.

Il mondo omosessuale, quello dei pederasti, alle volte ninfomani ed anormali, nel 1968, si estendeva nelle case, negli alberghi, nei bagni dei parchi delle grandi città ed era difficile, troppo difficile, poter uscire allo scoperto. Mancava solo un anno all’inizio dei moti di Stonewall e New York pullulava di quei tumulti interiori che stavano per far capolino non più solo nei vicoli bui della grande mela.

Le checche, i froci, i ne*ri succhia-uccelli, sono pronti a riconoscersi per ciò che sono: esseri umani diversi.

Jim Parsons, ineguagliabile in “The Big Bang Theory” e in “Hollywood”, ha confermato la sua capacità di poter ambire ad un premio Oscar nei prossimi 10 anni con estrema facilità. Il suo personaggio, Michael (Mikey), mostra l’insoddisfazione di un trascorso da cristiano cattolico, mista alla rabbia di non aver realizzato nulla nella propria vita, perché l’omosessualità ne ha fatto da limite. Solo l’alcol lo rende ancor peggiore ed è questo il motore del film. I discorsi, difficili ma profondi, sono l’impianto perfetto, la miccia da cui si accendono risse, pensieri profondi o stupidi giochi di sentimenti espressi, non solo attraverso un’erezione temporanea.

Ma il novero degli artisti si allarga e si arricchisce con Matt Bomer, dalle forti braccia e dalla perfetta nudità, con un personaggio, Donald, che mostra l’insicurezza e l’ansia di un gay gigolò che non ha saputo trovare di meglio per la propria vita, se non gli antidepressivi ed un lavoro come cameriere di un’impresa di pulizie.

Parliamo poi di Andrew Rannells, trentanovenne in questo film, trovatosi a mostrare la figura dell’omosessuale che ha bisogno del sesso per sentirsi perfetto; Larry vuole un uomo, ma ne vuole fisicamente altri 1000 e salta di palo in frasca regolarmente, da stanza a stanza, da uomo sposato a uomo sposato; come accade oggi, puntualmente, forse anche a vostro marito.

Zachary Quinto, irriconoscibile in questo estratto della realtà di fine anni ottanta, è la nemesi o il miglior compagno di Michael; è colui che non conosce l’amore, ma che prende la vita per quella che è, disorientando i normali e giocando la carta del sicuro, dietro creme per il viso che nascondono le imperfezioni. Il bisogno di coprire e nascondere ciò che si è, è palese espressione di un tempo poi non così lontano.

Tuc Watkins. Credetemi se vi dico che da oggi la mia vita non è più la stessa. Un metro e novanta centimetri di muscoli, tensione e maturità. Compagno nella vita reale di Andrew Rannels, è compagno di quest’ultimo anche nel film. Un avvocato sulla via del divorzio, che capisce perfettamente che qualcosa in lui non va, oppure va troppo bene. Larry è la sua stessa pazzia e Hank non può che seguirlo.

Michael Benjamin Washington interpreta la zia africana Bernard, ovvero lo zio ricchione che tutti vorrebbero. Lui di gap ne ha due: è nero ed è frocio. Un’interpretazione magistrale di un amante di libri che vorrebbe vivere la propria favola, affinché possa finire con “e visse felice almeno con sé stesso”. È lo specchio di un uomo omosessuale che si assoggetta allo zio Tom, ma che vuole essere Harriet Elizabeth Beecher Stowe.

Robin de Jesus interpreta la checca Emory, ragazzo che preferisce indicare i propri amici con il pronome femminile, quasi come se l’asterisco alla fine delle parole non potesse essere utilizzato; ma del resto, chi si arroga il diritto di identificare qualcuno in base al sesso biologico? Emory è divertente, sopra le righe, disattento, disadattato, la vittima perfetta di un liceo americano Trumpiano e crudele. Ricorda la Azzolino con i suoi banchi a rotelle e i contestatori della sua manovra. Divertente, ma estenuante.

Charlie Carver, presente anche nella serie Tv “Ratched” ha interpretato il vuoto e bellissimo Cowboy senza nome, quello che non sa cosa sia un ménage à trois, se non ci si trova all’interno, ma solo se si hanno almeno 20 dollari nella tasca. Oggetto di scherno di Mikey, omosessuale colto e profondo, che per invidia a causa della sua bellezza lo schernisce, ma senza risultato alcuno.

Infine, ma non per importanza, Brian Hutchinson, il compagno di college di Michael, distinto e con famiglia. Non è altro che il vostro compagno di classe che si vantava al liceo delle sue grandi conquiste, ma che dentro di sé ha sempre temuto di dover ammettere di avere un interesse anche per gli uomini. Alan, il suo personaggio, non riesce a parlare, piange, si emoziona, ma preferisce essere infelice per sempre.

Un film che viene ambientato in un’unica stanza, o meglio, una casa dell’East Village o della zona di Greenwich. Perché è lì che vivono tutti i gay, come se si parlasse di una casta, di una razza di cani o di una macchia indelebile sulla pelle. O come se fosse un luogo sicuro, una metafora della loro vita, sicché uno dei fil rouge tra i personaggi è la folle, smodata, vigliacca, comoda difficoltà comune nel riuscire a uscire dalle quattro mura che ognuno ha dentro di sé.

E siamo proprio sicuri che questa difficoltà sia puramente cinematografica?
Perché in questo appartamentino pieno di lustrini e moltissimi stereotipi, vive una disarmante realtà.
Badate bene, non si tratta della nemica e a dir poco squallida omofobia interiorizzata: la vera realtà è la realtà stessa.

Questo film, riprendendo un’opera di Mark Krowly, artista e scrittore morto questo aprile, vuole mostrare la realtà dei fatti, la verità intrinseca in ogni omosessuale.
Ma che dico, in ogni persona.

Si tratta della possibilità di non dare un nome al proprio essere, ma di lasciare fluidi non solo la propria sessualità, ma anche e soprattutto la propria vita. Un “vivi e lascia vivere” che ha senso di libertà, che ti porta a chiedere se vuoi essere Michael, Larry, un pizzico del Cowboy e se vuoi conoscere il sud dell’equatore di tutte le persone che incontri per strada.
Ma che te ne frega, del resto!

Questo strepitoso film è un inno all’innegabile e profonda diversità mista a stranezza che ognuno di noi ha dentro il proprio essere.
Se si bacia un altro uomo, non si fa poi niente di male.
Se si ama un altro uomo, non fai poi niente di male.

Mi sono convinto che siamo tutti un po’ froci.
Anche tu che lo hai usato per offendere almeno una volta nella vita.
Proprio perché lo hai fatto.

Tu anche sei frocio.
Ma del resto, che male c’è?

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