"Ma quant'è bello il mare? Dalla finestra dell'ufficio non si vede. Allora un ufficio vista mare? Meglio una vita vista mare."

Non posso.

Le parole preferite dalla mia generazione. Quella della “giungla sociale”; quella delle storie su Instagram mentre sei a lavoro con l’adesivo dell’orario ché se è tardissimo è meglio; quella di LinkedIn; quella dei “curricula” e non “curriculum” perché ne invii tanti, forse troppi; quella dell’aperitivo perché “prima delle sette non esco da studio”, figurati se c’è tempo per un pranzo con gli amici.

Una generazione che ha a disposizione smartphone, tablet e PC sempre più piccoli per essere facilmente riposti in tasca così da divenire sempre più ingombranti nella propria vita privata. Sempre connessi, mai in compagnia. Sempre in competizione, mai in amicizia. E così, lentamente, arrivano l’insonnia, la stanchezza cronica, lo scarso coinvolgimento emotivo e la poca reattività agli stimoli esterni. Un nome per riassumere il tutto: burnout, più precisamente “burnout lavorativo”. Pur nell’impossibilità di definire un “prototipo” univoco per questa sindrome, nella fase iniziale si manifesta con l’esigenza, per il lavoratore, di dare ancora prova di grande impegno a livello professionale; in quella successiva, il soggetto comincia ad avvertire spossatezza, irritabilità, irrequietezza e stanchezza cronica, spesso anche al di fuori della sfera strettamente professionale. Nella fase finale, invece, subentra un permeante sentimento di rassegnazione con un vorticoso calo di concentrazione e forze, spesso accompagnati da una generale sensazione di abbattimento psicofisico.

Tramite queste tappe, viene permesso allo stress di cronicizzarsi, cosicché il soggetto non ha più un atteggiamento responsivo nei confronti del disagio percepito ma, letteralmente, si abitua e normalizza la sofferenza. La sindrome da burnout lavorativo è stata isolata e tipizzata per la prima volta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2019, orientativamente definita, quindi, dall’insieme di “esaurimento emotivo”, “depersonalizzazione” e “derealizzazione personale”. Si manifesta con maggiore intensità e frequenza nelle professioni “stressogene” con accentuate implicazioni relazionali (operatori sanitari in primis, come anche avvocati) ma, fondamentalmente, nessuno ne è immune. Contribuiscono all’esaurimento (letteralmente “scoppio”) anche la scarsa o assente organizzazione del lavoro e l’assenza di ruoli che aiutino a definire le competenze e ripartire le responsabilità.

Perché accade? Certamente il fenomeno dipende, almeno in parte, da una logica di profitto del datore di lavoro: più il lavoratore si sente gravato dai doveri e responsabile per l’esito della prestazione, più tenderà a produrre, sentendo su di sé il peso dell’intera riuscita. Come, però, le leggi stesse di mercato insegnano, il superamento di un “punto di ottimo” non sempre assume connotati positivi. Così, il lavoratore, da alacre tende a divenire poco produttivo, da dedito diventa schiavo, da vincente si tramuta in inconcludente.

È quindi solo colpa del datore di lavoro, della logica del profitto, del capitalismo? Se così fosse, non sarebbe stata riscontrata la sindrome da burnout lavorativo anche nei disoccupati. Invece, anche questi ultimi, percepiscono il peso della disoccupazione e della spasmodica ricerca di impiego come il lavoratore più prostrato.

All’origine, vi è allora la mitizzazione del modello stacanovista. Un falso idolo che ha riempito il vuoto lasciato dall’assenza di sane e costruttive relazioni umane, di amore per la vita. Abbiamo noi per primi reso “glamour” non avere una vita personale, non riuscire a godere di un pasto con gli amici o di una passeggiata rigenerante. Non postare la foto di rito con la scritta “Thanks God it’s Friday” va a sovvertire quel tacito accordo per cui una cosa è realmente accaduta solo se viene postata, solo se è condivisa con i followers. È venerdì solo se scrivi che è venerdì e solo se rendi noto che, quel venerdì, te lo sei meritato. Ti sei meritato quell’apparente riposo che si riduce a due giorni di pura follia, in un tour de force per recuperare tutto quel divertimento che non hai vissuto durante la settimana, tutti quegli appuntamenti che hai disdetto perché troppo impegnato. Ed ecco che nasce Tinder, Grindr, Meetic e chi più ne ha più ne metta perchè “hey, chi ha tempo per incontrare l’anima gemella casualmente al cinema, sono una persona impegnata io”.

Ed ecco che è di nuovo lunedì. Ecco che il cane non viene più portato a fare una bella passeggiata. Ecco che il caffè con mamma viene rimandato al prossimo weekend, come se avessimo realmente il pieno potere sul nostro tempo, come se ogni giorno della nostra vita non fosse un’immensa concessione. E i disoccupati? Beh, che ci crediate o no, anche i disoccupati sono muniti di un cellulare, di una televisione o finanche di una radio. I disoccupati avvertono la pressione sociale e la frustrazione per il fatto di non avere un’occupazione che li faccia competere nella gara del Dio Denaro. Ed ecco allora che il burnout colpisce anche loro: non solo devono fare i conti con le esigenze economiche, col mettere il pane in tavola; devono pure convivere col senso di fallimento per non poter postare la foto con gli outfit da lavoro, per non essere anche loro iene e leoni nella giungla del mercato.

Presi dal costruire il nostro status sociale, dimentichiamo che la cose migliori della vita non hanno prezzo.

Presi dall’immortalare il pranzo in ufficio, dimentichiamo quello con gli amici.

Presi dal sapore della vittoria, dimentichiamo quello del nostro piatto preferito.

Presi dal contare le ore in ufficio, dimentichiamo di apprezzare il tempo che ci viene concesso.

Presi dall’odore dei soldi, dimentichiamo quello del mare.

Ma quant’è bello il mare? Dalla finestra dell’ufficio non si vede.

Allora un ufficio vista mare? Meglio una vita vista mare.

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