“Tutto cangia, il ciel s’abbella”: le prime teatrali e il covid-19

"Perché la verità è che avremo sempre bisogno dell’arte, unico mezzo capace di rappresentare il nostro vivere e il nostro sentire. Come le eroine e gli eroi dei libretti lirici, che da sempre sono come noi, vivono i nostri dolori e combattono contro il male e le ingiustizie. È questa la necessità dell’Arte: guardare al reale per raccontarlo."

Che il covid-19 abbia creato immensi problemi al mondo dello spettacolo ormai è cosa nota: teatri e cinema chiusi, stagioni sospese, concerti rimandati per la terza o quarta volta.
In un momento storico in cui si ricercano certezze e appigli consolatori, ci siamo dimenticati dell’arte, della sua potenza comunicativa, dell’astrazione che essa prevede e di cui, spesso e volentieri, abbiamo bisogno.
Perché? Semplice, non è ritenuta necessaria.

Come tante altre cose, del resto. Inutili le sollevazioni social, le dimostrazioni basate su dati che attestano che a teatro c’è stato un solo contagiato. Con il dpcm del 25 ottobre, tutte le realtà artistiche, in particolare performative, hanno subito l’ennesimo arresto.
Un colpo, questo, durissimo, sferzato dritto in faccia a chi, di teatro, musica, cinema e arte, ha fatto il proprio mestiere e scelta di vita. 
Ma si sa, gli artisti sono teste dure, tenaci e volitive, ed è per questo che, il 5 e il 7 dicembre abbiamo potuto assistere – da casa, ovviamente – alle prime del teatro dell’Opera di Roma e teatro alla Scala di Milano.
Due eventi che, di solito, raccolgono, nei palchetti laccati d’oro e nelle poltrone rosse imbottite, figure istituzionali e di spicco. 

A Roma, Mario Martone, con la direzione di Daniele Gatti, ha curato la regia e la messa in scena del Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, e lo ha fatto prendendosi tutto il teatro, rendendolo parte viva e integrante della scena: si ingloba l’intera struttura, dal foyer agli ingressi in platea. Ma la regia illuminata di Martone non si ferma solo ad una visione scenografica d’insieme, perché il suo barbiere arriva a teatro in scooter, attraversando una Roma assolata e trafficata; viene vestito e truccato in diretta da addette ai lavori bardate di mascherine e visiere.
I primi attori-cantanti in scena si presentano anch’essi con la mascherina, e vi confesso che mi ha fatto un certo effetto vedere portato sulla scena un elemento ormai imprescindibile della nostra quotidianità.

Eppure, ciò che questo Barbiere di Siviglia, a metà tra il teatro, il cinema e la televisione, ha portato in scena è stato, appunto, l’elemento realistico e contemporaneo, culminato con la “rete” che ha avvolto tutta la sala del teatro Costanzi. Martone ha concepito un’installazione che rispecchiasse l’ingabbiamento fisico e psicologico di Rosina, ma sono piuttosto certa che quei fili che si intrecciano e si annodano abbiano voluto rappresentare l’intrappolamento dentro cui si trova lo spettacolo dal vivo, chi lo ama e lo custodisce.
Ma non solo: quei fili, sospesi e spessi, mi hanno evocato la chiusura a cui siamo sottoposti noi stessi, le nostre gabbie dorate, le nostre paure che, inevitabilmente, alla fine si spezzano, si tagliano. Come i fili del Barbiere. La scena del taglio delle corde è un po’ ciò che aspettiamo da marzo a questa parte: tornare liberi.

Diversa è stata l’intenzione del Teatro alla Scala che, sotto la direzione del maestro Riccardo Chailly e la regia di David Livermore, ha dato il via ad una prima concepita come trionfo del teatro. Non un’opera quindi, ma un ensemble di musica, opera e danza, per uno spettacolo unico nel suo genere che, di sicuro, passerà alla storia. La citazione dell’ultimo verso dell’Inferno di Dante Alighieri, ripresa come titolo dell’evento, “A riveder le stelle”, è perfetta per rappresentare il potere di immagini e musica insieme: la guarigione, simbolo di rinascita.
Il Teatro alla Scala ha messo in scena uno spettacolo complesso di musica, luci, testi ed immagini per la trasmissione televisiva. L’Orchestra, il Coro e il corpo di Ballo del Teatro alla Scala, hanno trascinato lo spettacolo verso un grande momento di pura arte.

In particolare, ho apprezzato i testi, che si alternavano all’esecuzione, di grandi autori e personaggi come Eugenio Montale, Cesare Pavese, Ingmar Bergman, Michela Murgia ed Ezio Bosso. 
Si è trattato, dunque, di un gran galà con ben ventidue stelle internazionali del canto che hanno interpretato alcune tra le più celebri arie liriche per condurre il pubblico della diretta televisiva della Rai. Tutti artisti che ci hanno dimostrato quanto l’Opera sia viva, resista e sia capace di lottare generosa e unita anche al tempo del coronavirus, nel segno di un Teatro che non si lascia andare ma guarda avanti. Le emozionanti immagini di Milano nell’emozionante gran finale del “Tutto cangia”, dal Guglielmo Tell, restano e resteranno ad imperitura memoria.

Ecco, queste due colonne portanti della cultura italiana hanno dato la prova che è ancora possibile parlare d’arte, di lirica e teatro in Italia. Anche durante la pandemia. Perché la verità è che avremo sempre bisogno dell’arte, unico mezzo capace di rappresentare il nostro vivere e il nostro sentire. Come le eroine e gli eroi dei libretti lirici, che da sempre sono come noi, vivono i nostri dolori e combattono contro il male e le ingiustizie. È questa la necessità dell’Arte: guardare al reale per raccontarlo. 

“Il palcoscenico diventa laboratorio di possibilità – ha detto la Murgia – C’è un filo d’oro nei libretti d’opera: è l’eterna grido di giustizia di chi non ha voce, si è trasformato in un acuto potente che ha spezzato certezze cristalline”. E così conclude: “L’arte immagina un mondo dove le opportunità di essere felici appartengono finalmente a tutti e tutte”.

È stato doloroso vedere le platee vuote, non poter sentire lo scroscio di applausi alla fine delle grandi arie e dello spettacolo; ma è stato, del resto, dolorosamente inevitabile. Un teatro senza pubblico è straniante, manca di ciò che dà impulso e forza alla performance: l’attesa, l’applauso, gli occhi puntati addosso. Quella mancata dialettica tra attore e spettatore che è diventata un’altra cifra essenziale di questo strano presente.
Io, vi dirò, che di impulso le mani le ho battute, quasi come se aspettassi che qualcun altro lo facesse con me.
E sono abbastanza certa sia andata così.

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