"Maria si lascia accarezzare dagli occhi elettrici di Mario – un balsamo buono, una fune allentata. Rossa come il filo di quella leggenda cinese di cui abusiamo tutti"

A F. che mi ha ridato speranza e ha reso questa storia possibile.
A me che ho contribuito alla pace di F.
 Ma soprattutto a chi, come noi, ha imparato ad “abbandonarsi all’improbabilità”
 

(N.B.: la playlist dura su per giù 27 minuti)

Premessa

La storia che sto per raccontarvi è durata più o meno 27 ore. Le variazioni hanno una durata che non ho calcolato. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti non è casuale, ma neanche voluto. Un po’ come gli eventi che hanno portato alla stesura di questa storia: non sono stati voluti, ma non sono neppure casuali – di questo ne siamo certi. Per quanto riguarda le variazioni, sono dei tentativi – chissà se riusciti – per dare forma a delle vite improbabili, ma auspicabili ché “il futuro è un’ipotesi dove tutto è possibile”. 

I.

Maria non ricorda l’ultima volta in cui è stata male male. Perché ci stia pensando adesso con un raviolo alla griglia che rimesta in bocca come un chewing gum di glutammato non lo sa nemmeno lei. Si passa distratta le dita tra i capelli. È meglio concentrarsi sul bolo, sulla masticazione, sui muscoli esofagei… Brava, Mary, non pensare alla morte: focalizzati sulla peristalsi. “Quindi questo quando lo vedi?”, le chiede Chiara. Maria guarda l’orologio che ogni tanto dimentica di avere al polso. “Gli ho detto alle 10:00″ sbuffa. 21:47. “Mo’ gli scrivo che ritardo di 15 minuti”, “Non ti vedo convinta”, “Mah, nì, in realtà, è perfetto perché sta a Roma e partirà giovedì. Lo vedo stasera: non lo vedrò mai più”. La vita di Maria procede a ondate, salta dal perfetto al catastrofico in archi temporali brevi e al di là delle circostanze. In questo momento, ad esempio, il suo umore è in caduta libera. Le fa male il petto, in corrispondenza del cuore o del lobo superiore del polmone sinistro – non riesce a capirlo. Raramente Maria sa distinguere il dolore; quasi mai è in grado di dargli una collocazione. Per Maria la sofferenza non è un’estensione né un suo prodotto/scarto, ma una figlia che le appartiene nei limiti della genesi. Il suo dolore impara presto a stare in piedi e a camminare, come i puledri dalle zampe di giunco che sgusciano dall’utero torturato delle madri. Per eccesso di zelo, Maria si smembra per scorrere nei dotti che irrorano il suo dolore; si fa midollo perché possa sviluppare nelle cavità delle ossa gli anticorpi che gli permetteranno di sopravvivere al mondo.

Mario è nato dal corpo morto di suo fratello; dallo squarcio verticale che ha reciso in due il ventre sfranto di sua madre; dalla cicatrice ondulata che prima era una ferita e che ora fa vergognare Angela. Mario è un randagio col pelo impregnato di fumo; piscia dove gli pare, scopa con chi gli va. Annusa la vita che trasuda dai quartieri popolari e imputridisce nei loft al centro. Mario è un saltimbanco sfavorevole agli addii: non appartiene a nessuno e nessuno appartiene a Mario; non ha i pensieri sbiaditi di cui canta Clementi né la voglia di scendere a patti con aprile e con ottobre. Mario pretende una giovinezza eterna o un’eterna estate perché il buio e la solitudine gli fanno paura. Delle settimane la testa gli scoppia come i chicchi di mais nel microonde; detona in fuochi d’artificio bianchi e azzurri – bellissimi; altre, beh… in altre Mario, ma perché dobbiamo parlarne? Non ha senso: oggi Mario sta bene: anzi, benissimo: alla grande: è euforico. Fischietta come può trotterellando tra le strade di una città sconosciuta. Ne ha fame, come ha fame di quel corpo che ha visto solo in foto. Si incrocia nel riflesso lucido di una vetrina. Mario è bello di una bellezza inquieta, come gli eroi tragici che ammazzano i figli e poi si ammazzano loro.

Maria ingoia quel che resta del prosecco fino a farne colare dei rivoli che dalle labbra le scendono fino al mento. Ha gli occhi lucidi: spera che Chiara non se ne accorga. Ultimamente Maria vorrebbe solo piangere ed effettivamente, quando se ne sta per conto suo, Maria piange e basta. “Chiarè, s’è fatto tardi: devo andare, mi bevo ‘na roba con questo, valuto, ma a mezzanotte starò già dormendo”, “Scrivimi appena puoi, voglio i dettagli”. Chiara ama le storie di Maria: le offrono uno spaccato su una vita alternativa, al di là dei diktat della monogamia, degli obblighi formali e pretestuosi che ci legano a un’unica persona. Maria le scriverà e, in un aneddoto che infuocherà la faccia di Chiara, le racconterà che la scopata è stata okay o grandiosa; le dirà che l’ha cacciato di casa subito dopo l’orgasmo; che s’è lavata bene per cancellare dalla sua pelle il peccato: i residui di un corpo diverso dal suo.

II.

Mario si accende una sigaretta. Maria aspetta Mario. Mario si avvicina a Maria che l’aspetta. Di solito Maria non riconosce subito i Mario. Deve strizzare gli occhi, inforcare gli occhiali, controllare sul cellulare che faccia abbia il Mario di turno, per non confondersi e rischiare di andare incontro a un uomo diverso da quello a cui ha dato appuntamento senza averlo mai incontrato prima.

Ma Maria e Mario si riconoscono subito. Gli occhi oltremare di Mario incrociano quelli castani di Maria come un che di fortuito – un lampo improvviso in una giornata assolata. 

Mario ha il battito accelerato: a Maria un battito salta. Si sono avvicinati l’una all’altro col passo sicuro e lo sguardo liquefatto di chi si conosce già. Si abbracciano e si danno due baci con lo schiocco su entrambe le guance. Il corpo fuligginoso di Mario cerca quello vanigliato? – vanigliato – di Maria. Profuma, Dio, quanto profuma. Mario vorrebbe affondare il naso tra i seni impercettibili di Maria e poi leccarle con la punta della lingua quel tatuaggio a linee sottili che non riesce a capire. 

“Ciao, da quanto tempo. Dove sei stata?”, “Ero qui: sei tu che non c’eri”. Maria pensa alle braccia di Andrea che, ubriaco, ciondola in Porta Genova; Mario a Caterina ingobbita sul motorino, all’adolescenza che gli faceva ingrossare l’uccello e tremare le vene.

Ma Mario non è Andrea e Maria non è Caterina. Allora chi siamo? Seduti l’una di fronte all’altro Mario e Maria parlano, mai del tempo del lavoro di quella serie tv che hanno visto tutti di quel romanzo che hanno letto tutti: Mario e Maria parlano parlano parlano e più parlano più trovano argomenti di cui parlare. E poi ridono ridono ridono e ridono. Quando i discorsi si fanno più seri, lo sguardo di Mario diventa sfuggente. Maria non se la prende, il fatto che, ogni tanto, Mario non la guardi le dà modo di studiarlo. Non ha smesso un attimo di fumare. Mario spegne, rolla e accende. Le chiama “cannette”, dentro c’è più tabacco che erba, ma a Maria non importa né dell’erba né del tabacco: vuole capire perché Mario fumi così tanto. Glielo chiedo? Non glielo chiede.

“Vuoi fare un tiro?”

“Perché no?”

“Fumi?”

“No”.

“E come tieni a bada i pensieri?”

La prima volta che ho sentito il mio cervello estraneo avevo 8 anni. Ero al cinema con gli zii. Si sono spente le luci ed io… beh, io ho iniziato a urlare e a scorticarmi con le unghie la pelle dalle cosce. Davano Mulan: non ho mai visto Mulan.

“Non penso: ho smesso”.

A 15 anni ho iniziato a sanguinare. Così, un Capodanno, ho versato una boccetta di ansiolitico in una bottiglia di gin. L’ho shakerata e me la sono scolata; sono svenuta, non sono morta. L’ho fatto perché volevo cauterizzare le ferite e tamponare l’emorragia, ma non ci sono riuscita: perdo ancora sangue.

Seduti l’una di fronte all’altro Mario e Maria continuano a parlare, mai del tempo del lavoro di quella serie tv che hanno visto tutti di quel romanzo che hanno letto tutti: Mario e Maria parlano parlano parlano e più parlano più trovano argomenti di cui parlare. E poi piangono ridono piangono e ridono. Ora, quando i discorsi si fanno seri, Mario non cerca scappatoie. Il suo sguardo è fisso su Maria, gronda sul tavolino in ferro battuto che li separa come il temporale che a gocce precipita sulle loro teste. Fradicia di pioggia, Maria non si sposta, si lascia accarezzare dagli occhi elettrici di Mario – un balsamo buono, una fune allentata. Rossa come il filo di quella leggenda cinese di cui abusiamo tutti.

III.

Mario non ne è sicuro, ma gli sembra che Maria gli stia lanciando dei segnali. Quando Maria si scalda, muove le mani; mani che, ogni tanto, sfiorano le braccia di Mario; Mario, che desidera Maria da quando l’ha vista, prende coraggio; protende il collo; allungando il tronco rovescia i bicchieri e poi la bacia annientando la distanza. La pioggia non smette di cadere, Maria e Mario di baciarsi. I loro contorni mischiati tremolano sotto l’acqua. Respirano dal naso come gli adolescenti che limonano sui muretti; fosse per loro scoperebbero in strada, sotto gli occhi di tutti – animali selvatici guidati dagli ormoni. Ogni tanto si guardano e sorridono.

“Ora-potresti-chiedermi-davvero-qualsiasi-cosa”.

(Mario ha la tendenza a rosicchiare gli spazi tra le parole ndr.)

“Fammici pensare”, Maria si massaggia il mento con l’indice e il pollice della mano destra “dovresti saltare”.

“Bene-quanto-in-alto?”

“Beh, almeno tre metri”.

Mario si alza e salta. Maria scoppia a ridere. È talmente felice che lo capirà tra un paio di giorni, quando Mario sarà un ricordo: un circuito di sinapsi che scintilleranno in sincrono quando il mondo offrirà ai suoi sensi una percezione che le farà pensare a Mario in modo così intenso da costringerla a tracciare nella sua mente le rughe d’espressione tra le sue sopracciglia, i denti storti mangiati dal fumo, la barba lasciata crescere come le piante infestanti ai bordi delle strade. E le sue spalle le sue gambe il suo culo il suo cazzo e poi il suo corpo per intero che l’afferra, che la gira, che le solleva il vestito, che le scosta gli slip e che, sicuro, la prende da dietro finché un umore d’albume non le cola fino ai polpacci. Solo alla fine, quando la percezione sarà ormai esausta, il suo cervello le restituirà le immagini più dolci: la faccia arrossata di Mario affondata tra le sue cosce, le dita callose sporche di bava e poi ovunque le mani che la toccano e le tengono ferma la testa, Brava, così, sì; ecco: così, da brava, apri bene la bocca: prendilo tutto. Quando Maria capirà di essere stata felice e Mario sarà solo un ricordo, nessuno intorno a lei se ne accorgerà. Gli altri – tutti gli altri – non capiranno quanta vita si possa consumare in sole 27 ore.

IV.

Te lo giuro, Chiarè, mi ha detto: fingiamo di stare insieme. Al che io gli ho chiesto: come, scusa? E lui mi ha ripetuto come fosse la cosa più normale del mondo: facciamo finta di stare insieme. In che senso, gli ho domandato io che di normale in questa storia non ci trovavo nulla. Nel senso che abbiamo 24 ore prima che io parta – si è alzato dal divano su cui si era steso per abbracciarmi – in 24 ore possiamo fare un sacco di cose, anche simulare una vita insieme. “Simulare una vita insieme”. Mario ha utilizzato queste esatte parole: simulare-una-vita-insieme. Prima di conoscerlo pensavo che le vite si potessero solo vivere o al massimo immaginare. Non credevo che due persone, fuori da un teatro o da un set cinematografico, potessero simulare una vita. Mario ha capito che non stavo capendo, così s’è spiegato meglio. Da scrittore a scrittrice: ti propongo un esperimento. Con ogni probabilità noi non ci rivedremo più eppure avremmo così tanto da darci. Non buttiamo il nostro tempo insieme che è nostro soltanto se ne facciamo buon uso. 24 ore come 24 anni. Un’ora, un anno. Sono scoppiata a ridere. Pensavo che stesse scherzando, ma Mario non scherzava: era serissimo. Mi fissava coi suoi occhi enormi – bellissimi. Dio, Chia, non credo di avere visto in vita mia un paio di occhi più belli di quelli di Mario. Non riesco neppure a descriverteli senza correre il rischio di privarli di qualcosa. Per questo non te ne parlerò – mai. Vuoi o non vuoi le parole sintetizzano ed io non voglio sintetizzare gli sguardi di Mario: li voglio tenere per me come un che di delicato; così fragile da essere prezioso. A questo punto vorrai sapere… sì, oh-oh, piano: fammici arrivare! Ecco, vorrai sapere cosa gli ho risposto. Ovviamente che potevo dirgli? Eh, sì, esatto: certo, facciamolo, buttiamoci: al massimo verrà fuori un aneddoto divertente. Nei nostri anni insieme di cose divertenti ne sono successe parecchie. Abbiamo riso fino ai crampi. Ma abbiamo anche parlato con le facce serie e i cuori esposti. Tò, avrei voluto dirgli, prenditelo tu ‘sto muscolo stronzo, facci quello che ti pare, gonfiamelo con la bocca come i palloncini che regali in giro. E, a pensarci bene, Mario lo ha fatto: mi ha riempito di affetto e parole fino a farmi scoppiare. Ne sono felice perché a saturarmi il cuore è stato lui. E poi non riuscivamo a tenere a bada le mani. Dovevamo toccarci; poi annusarci e leccarci. Non riuscivamo a stare lontani. Sì, Chiarè, te lo confermo: sembravamo due ragazzini. Del resto, era prevedibile, no? 24 anni insieme… La fine della nostra storia è stata la cena. Nel ristorante cinese vicino casa, Mario mi ha ribadito l’ovvio: il nostro sarebbe stato un addio senza “se” e senza” ma”. “Ti devo confessare una cosa, mi ha detto dopo aver ordinato da mangiare, quella di ieri non era una battuta. Maria, io ho una malattia e devo ricominciare a curarmi: sono bipolare”.

V.

L’euforia di Mario è un sintomo. Nelle 24 ore precedenti, Maria non se n’è accorta. Come una ragazzina, ha lasciato che dei trucchi di magia la fuorviassero. Mi/si sono/è comportata da stupida incantata com’era dalla maestria con cui Mario maschera dietro un gioco di specchi un disturbo bravo a nascondersi. In un istante tutto si è fatto chiaro; lattiginoso come il cielo di Milano, carico di polveri sottili che, dense, ci irritano gli occhi. Maria non riesce a trattenersi: stringe le spalle e scoppia in un pianto dirotto. Mario la guarda senza capire, non sa come aggiustare un cervello rotto, figuriamoci un cuore a pezzi. Così continua a raccontarsi in un fiume implacabile di parole, colpi di mitraglia sul corpo di Maria. Meglio il caos del silenzio. Mario vuole riempire ogni spazio sgombro, spera che anche Maria trovi consolante la sua verbosa asfissia. Ma Maria sta soffocando: ha bisogno d’aria, di finestre spalancate, del profumo di bucato, del cricri dei grilli o di qualsiasi escamotage che le cancelli dalla testa la figura di un Mario rannicchiato e ingrigito; sciolto su un materasso pisciato; catatonico in una stanza con le persiane abbassate. Vedo solo buio. Maria, che fino a quel momento aveva associato Mario alle lucine colorate che penzolano sui rami in PVC degli alberi di Natale, annaspa nel buio – un buio plumbeo e melmoso. Lo stesso buio che ogni tot la spinge al suicidio e che porta Mario a circondarsi di persone, un’infinità amorfa di corpi, separé di carne atti a nascondere ai suoi occhi lo squarcio dell’abisso.

“Non ti preoccupare, sta’ tranquilla, da prossima settimana riprendo il litio. Sta’ tranquilla”. Così, ma in loop.

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riprendoillitio.

“Devo andare in bagno, scusami”.

Maria ha le gambe flosce, si alza e si trascina fino alla toilette; si chiude la porta alle spalle, non fa in tempo a girare la chiave nella toppa che inizia a vomitare. Una volta svuotata, si pulisce la bocca col dorso della mano, poi guarda riflesso nello specchio il suo viso sporco di rimmel. Ha il cuore che le martella lo sterno: in fondo è grata a Mario per la sua spontaneità; per essere così e non altrimenti; per averle ricordato che nel suo mediastino, oltre ai sedimenti della malattia, c’è dell’altro.

Mario continua a mangiare Maria non sa quanto sia stato difficile per lui riappropriarsi della leggerezza del suo corpo a Mario piace un’espressione di Nietzsche doglie mentali nei suoi episodi nello stato in cui è adesso il suo cervello scalcia come un neonato la sua attenzione schizza da un punto all’altro da un’idea all’altra da una voglia all’altra come la pallina in un flipper Mario ha paura della felicità quando non c’è e del silenzio quando si sente da un paio di mesi tutto intorno a lui è sorprendente e sfavillante nelle ultime 48 ore Mario non ha chiuso occhio non voglio dormire vuole solo dormire non voglio dormire vuole solo dormire è eccitato ha il cuore a mille – che dico? – a duemila domani è lontano domani è già qui Milano gli mancherà? Mi mancherà Maria.

VI.

26 ore insieme – centesimi nell’economia di una vita – ma a Maria e a Mario non importa. Sulla panchina fuori dal ristorante osservano i tram che sferragliano sui binari. Nessuno dei due ha più voglia di parlare. Maria ha la testa posata sulla spalla di Mario. Prima, seduti al tavolo, gli ha detto che è sollevata perché non si incontreranno più, che se fossero stati vicini sarebbe stato un disastro. Mario annuisce senza convinzione. La  distanza in treno tra Roma e Milano è insignificante, ma sa che il discorso di Maria va ben oltre i chilometri. “Non c’è nessuna red flags: solo white flags”, uggiola forzandosi in una risata. Maria non ride, ha gli occhi secchi di chi ha pianto e lo stomaco capovolto di chi ha vomitato. White flags. Con il naso affondato tra i capelli di Mario, Maria pensa alle bandiere bianche che ricordano ai bagnanti che il mare è sereno, ai ragazzini col moccio secco che sventolano i loro fazzoletti per non farsi uccidere. Accoccolata sul corpo di Mario, Maria respira, fa pace con sé stessa, si arrende all’eventualità dell’amore.

Mario è concentrato su Maria. Non gli è chiaro né come stia lei né come si senta lui. La fluidità del suo umore è una condanna. Mario vorrebbe che i suoi sentimenti fossero stati; che si solidificassero senza cambiare forma. Se così fosse, si libererebbe una volta per tutte dell’ottundimento degli stabilizzatori. Gli piacerebbe che le emozioni che prova per Maria fossero totem o monoliti. Li posizionerebbe qui, a Milano, a poche centinaia di metri dal palazzo di Maria perché lei, affacciandosi al mattino, possa vederli e capire che anche se lui è lontano e non tornerà mai più, quello che prova per lei è immutabile e le resterà accanto per sempre.

Maria infila una cuffietta nell’orecchio buono di Mario – dal sinistro Mario è sordo – e l’altra in uno dei suoi. I Verdena straziano note e parole, con un linguaggio semplice suggeriscono a Mario e a Maria quello che nessuno dei due ha il coraggio di dirsi: così vicina a me ma così fuori da me, in fondo tu mi vuoi e se mi vuoi, io volo.

“Sarebbe stata bella la nostra vita”, sussurra Maria con lo sguardo vitreo fisso sui tram e le dita incastrate tra quelle di Mario. Ma Mario è distratto, non la sta ascoltando. “Meglio così”, si dice Maria, “sì, va bene così”.

VII.

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16 Giugno – 00:06

Ammetto di non essere un grande amante della poesia (a volte, ma solo per irritare alcune persone, cito Gore Vidal, secondo cui la poesia, nella migliore delle ipotesi, è prosa accuratamente rovinata), ma una volta lessi un verso di cui non ricordo l’autore, ma che mi rimase molto impresso: ogni cosa è profonda se a guardarla è un’altra profondità. Grazie per avermi guardato con profondità e in profondità – mi auguro di aver fatto lo stesso. Custodirò gelosamente questo tempo che abbiamo passato insieme: per il resto, il futuro è un’ipotesi dove tutto è possibile, il che è allo stesso tempo spaventoso e consolante, perciò chissà. Volevo farti sapere che hai contribuito grandemente alla mia pace. Ti bacio sul collo, sui capezzoli, sul (sulla?) clitoride, sulle labbra e ti mando un abbraccio forte. See you later, amica mia.

Il 16 Giugno alle 8:58 Mario salirà sul 9615 a Milano Centrale (900 metri da casa di Maria). In 3 ore e 12 minuti arriverà a Roma. Dirà ad amici e colleghi che è stato un viaggio tranquillo. Da Termini prenderà la metro e, senza passare da casa, andrà a lavoro. I vestiti che aveva su nelle ore trascorse con Maria se li cambierà tra un paio di giorni. Vuole che l’odore di lei gli rimanga addosso il più possibile, incastrato tra le trame del cotone. Non è pronto a privarsi di Maria così procrastinerà doccia e bucato fino al limite della decenza. Lo racconterà soltanto a me; non dirà ad altri che non si è lavato per lei. Sta’ tranquillo, Mario, non lo sapranno; non confesserò a nessuno che speravate per voi un finale diverso.

*Intendo l’hobby: non il libro né il film. Solo quando impari a riconoscere i treni, capisci quali dovresti perdere.

L’immagine in copertina è un’opera di Bianca Dall’Osto.

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