"A guardarlo da fuori, quello della Serie A pare un universo completamente avulso dalla realtà del Paese, incurante di tutto ciò che è fuori di esso, che arroga a sé il diritto di darsi regole proprie e sovrane rispetto allo Stato."

Non c’è nulla di più divisivo in Italia di una bella polemica sul calcio.
Non servono fiumi di inchiostro in questo senso, ma cosa succede quando il mondo del pallone si scontra con una pandemia globale? I risultati sono negativamente stupefacenti.

Sin dall’esplosione dei contagi a marzo, l’apparato federale calcistico si è messo in moto freneticamente per portare a termine una stagione – la precedente – che sembrava doversi concludere anzitempo. I contatti tra FIGC, Lega e Ministeri di Salute e Sport sono stati fitti: in ballo c’erano i milioni dei broadcaster e le perdite di cassa ingenti, spauracchio di praticamente tutti i club.

Il peccato originale è da ricercarsi a quell’epoca: il calcio ha ricevuto un trattamento che si riserva solo ai grandi temi riguardo la sua ripartenza.
Così, si è pensato di rimettere in moto la macchina sportiva a giugno con protocolli modellati alla carlona, stadi completamente vuoti e calendario concentratissimo in quei due mesi e mezzo resi disponibili da UEFA, FIGC e Lega Calcio.

Il primo protocollo prevedeva semplicemente l’isolamento dei calciatori trovati positivi durante la settimana della o delle partite e regole più o meno formali, come il divieto di esultanze o di assembramenti durante i calci d’angolo (mi perdonerete la risata sardonica). L’obiettivo era chiaro:  virus o non virus il campionato doveva terminare giocandolo.

La retorica è stata semplicemente vomitevole: venivano tirati fuori argomenti quali la salvaguardia delle persone che ruotano intorno al circo mediatico o la necessità di intrattenere le persone chiuse in casa; insomma, si è fatto perno su di un falso senso di umanità che il calcio ricorda di possedere solo quando il portafogli piange lacrime di sangue.

Così la stagione 2019/20 ha conosciuto la sua fine naturale senza troppi affanni, complice anche il clima estivo e la decrescita della curva pandemica, iniziando ad interrogarsi sul cosa aspettarsi dalla successiva, cioè quella attuale; probabilmente ci si è adagiati nella bambagia – ritenendo che il peggio fosse passato – e non si è pensato di apportare grossi cambiamenti alle procedure, se non l’obbligo di effettuare tamponi per tutta la squadra 48 ore prima degli incontri.

Ed eccoci ai giorni nostri: dopo appena due giornate di campionato, le discussioni sono impazzate e il casus belli tanto atteso non ha fatto alcuna fatica a comparire sulla scena. Parliamo di Juventus-Napoli – gara valevole per la terza giornata della Serie A 2020/21 – e di tutti gli strascichi che inevitabilmente scaturiranno dalle decisioni in merito.

Prima di parlare del futuro concentriamoci sull’antefatto, ossia Napoli-Genoa del 27 settembre: la squadra genovese si presenta al San Paolo con due soli positivi accertati, Perin e Schone. La partita viene disputata regolarmente e finisce con un roboante 6-0 per i partenopei; a pochi giorni dal match, con i rossoblu ormai tornati in Liguria, ecco puntuale il macigno: la nuova tornata di tamponi effettuata il martedì successivo ha dato un esito spaventoso. Quattordici tra giocatori e membri dello staff risultano positivi (poi divenuti diciannove).

Ha inizio la corsa al tampone in quel di Napoli e dopo le prime rassicurazioni ed un solo infettato rilevato, Piotr Zielinski, pare essere tornato il sereno… o almeno questa era la sensazione, fino al sabato prima della partita tra bianconeri e azzurri.
Intanto, a Torino e nella sede della Lega, cominciano i brusii: “Juve-Napoli è a rischio, probabilmente non si giocherà”.

La squadra guidata da Gattuso – che nel frattempo ha riscontrato anche la positività di un altro giocatore, Eljif Elmas – si mette in viaggio da Castel Volturno alla volta di Capodichino, dove la attende il volo diretto a Caselle.
E proprio quando i dubbi paiono dissipati, arriva la notizia a bruciapelo: il Napoli non va a Torino, il presidente di Regione De Luca ha dato disposizione all’ASL di non lasciar partire la compagine partenopea.

Sdegno tra i membri di entrambe le tifoserie e non solo, ci si accusa vicendevolmente (lasciatemelo dire, anche campanilisticamente) di aver compromesso la partita a motivo di interessi personali: la Juve per ottenere il 3-0 a tavolino e il Napoli per evitare la trasferta orfano di Insigne, Zielinski ed Elmas.

Le ricostruzioni variano nel corso delle ore e il divieto di partenza diramato dall’ASL comincia ad assumere i contorni della semplice raccomandazione, ma la voce non trova conferme solide. La Lega Serie A attende prima di esporsi e nel frattempo la Juventus assume una posizione netta ribadendo la volontà di presentarsi in campo per un match che non è stato né annullato, né tantomeno rinviato.
Il Ministro della Salute Roberto Speranza la mattina dopo tuona: “la partita non si gioca, questo mi pare chiaro, si parla troppo di calcio e poco di scuola” e infine arriva la nota della Lega a mettere ancor più scompiglio, dichiarando una volta per tutte che sì, si può giocare.

La vicenda ha del grottesco e sottolinea una volta di più l’inefficienza e l’incompetenza sia di chi sta ai vertici del calcio italiano, sia di chi a livello statale deve raffrontarsi col mondo del pallone.
A guardarlo da fuori, quello della Serie A pare un universo completamente avulso dalla realtà del Paese, incurante di tutto ciò che è fuori di esso, che arroga a sé il diritto di darsi regole proprie e sovrane rispetto allo Stato, con Ministeri e Ministri totalmente inerti di fronte all’eco mediatica che spesso sono i tifosi ad alimentare a causa del disperato e mai domo bisogno di guardare una partita.
Una qualsiasi partita, fosse anche un’amichevole.

Il problema sorge quando queste regole cozzano con la realtà, quella del virus che non guarda in faccia nessuno, mettendo in mostra la scarsa preparazione a trattare argomenti delicati da parte dei fantocci messi dai club sugli scranni apicali del movimento calcistico italiano.
L’obbligo di effettuare test 2 giorni prima dei match non ha nessun effetto contenitivo del contagio, potendo benissimo il virus essere in fase di incubazione e quindi non rintracciabile (mentre sulla contagiosità durante questo periodo ancora i virologi non concordano) e vien da sé domandarsi come il CTS abbia potuto fornire il proprio nulla osta a protocolli senza alcuna efficacia.

Allora il dilemma diviene etico, specie con l’approssimarsi dell’inverno e della stagione influenzale: siamo disposti a rivedere i protocolli e renderli più stringenti per limitare al massimo la diffusione, finanche arrivando a sospendere il campionato?
O il costo in vite umane è secondario rispetto all’intrattenimento della domenica?

A voi le risposte.

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