La Tanzania è un sentimento contrastante. Forse è per questo che ad oggi, dopo quasi un anno che l’ho lasciata, fatico ancora a parlarne, a darle forma. O a darne una a me stessa.
Vorrei poter dire che ciò che andrò a scrivere non soffrirà del peso della mia spiccata ed evidente vena polemica e che sia solo un racconto fatto di leoni, zenzero e bongo music (e, per carità, ci sono stati pure quelli); ma come si fa a ridurre un’intera comunità ad un cartone animato della Disney?
La Tanzania non è quella del diavolo della Tasmania. Quella sta in Australia. Cosa facevate durante le ore di geografia alle elementari?
Il Paese si compone di due parti: la Tanzania continentale (o mainland) e l’isola di Zanzibar.
Curioso è notare che chi tratta il continente africano come fosse un’unica gigantesca terra fatta esclusivamente di sabbia e povertà, definisce mainland come “la vera Africa” e Zanzibar come il parco acquatico di europei, russi e americani.
Perché sia curioso non lo so, forse mi sto ancora domandando se i grattacieli di Dar es Salaam e le molteplici università del Paese siano la finta Africa o magari se le persone che vivono sull’isola di Zanzibar fuori dai resort a 5 stelle sappiano di avere casa a Zoomarine.
Poi però mi ricordo che quelli che fanno queste osservazioni sono gli stessi turisti che fanno foto ai bambini degli estranei per strada perché sono neri e carini, vanno negli asili a insegnare a dire “Italia Uno, Canale Cinque” e a regalare pennarelli, e poi pagano le guide turistiche per farsi portare nei villaggi (preferibilmente Maasai, ché sono vestiti più da africani veri della vera Africa) per guardare le case dei poveri.
Ma sì, procedo.
Ho vissuto nella cittadina di Bagamoyo, sull’Oceano Indiano, nella Tanzania continentale, per circa un anno. Nel 19° secolo, proprio da Bagamoyo, iniziarono a partire le navi cariche di avorio e schiavi, che è ciò da cui si dice derivi il suo nome: Bwaga-Moyo, che in Swahili significa letteralmente “lascia qui il tuo cuore”.
Chi partiva come merce, sapeva che non avrebbe più fatto ritorno nella sua terra.
Una terra su cui, proprio a pochi metri dal punto di partenza di queste imbarcazioni, sorgeva (e si trova tutt’oggi) il cimitero coloniale tedesco, simbolo indelebile del colonialismo europeo: della Germania prima, della Gran Bretagna poi e del Portogallo ancor prima della Germania.
Furono i tedeschi, in particolar modo, a dare lustro a Bagamoyo, eleggendola come capitale del loro impero coloniale nell’Africa Orientale per qualche decennio.
Vi avviso che c’è molta amarezza nella parola lustro, cari i miei #veraAfrica.
In Tanzania il tavolo (meza) è portoghese, la scuola (shule) è tedesca, l’automobile (gari) è inglese, anche se lo Swahili è una lingua di origine bantu, nonché natìa proprio di questo Paese (ma non ditelo ai kenyoti).
Al mattino si beve il chai (tè) bollente, perché un giorno gli inglesi decisero di sostituire gran parte delle piantagioni di caffè della Tanzania con il tè.
Come se io domani aprissi il frigo di casa tua e ti buttassi tutta la carne che hai perché ho deciso che devi conservarci le mie verdure.
Tutti vegetariani col seitan degli altri.
I tedeschi, dopo Bagamoyo, decisero di rendere Dar es Salaam la capitale del proprio impero, e così fecero anche gli inglesi dopo di loro, rendendola una terrazza del commercio marittimo per i propri interessi.
Dopo aver raggiunto l’indipendenza, però, la prima presidenza tanzaniana decise di trasferire la capitale a Dodoma. Ragazzi, Dodoma è brutta, attenzione. Non ha veramente né arte e né parte, costa tantissimo, somiglia ad un enorme cantiere.
Roba che Catanzaro sembra Marrakech a confronto. La città, non il rapper, per piacere.
Però, simbolicamente, Dodoma ha una posizione geografica molto più centrale di Dar es Salaam, trovandosi più o meno in mezzo tra tutte le regioni del Paese. E qui si parla di un Paese che aveva bisogno di una comunità unita e compatta, dopo essersi finalmente liberato delle ingerenze europee, nonostante le oltre 120 tribù, lingue e religioni differenti da trasformare in un’unica identità nazionale. Un Paese che aveva bisogno di autodeterminarsi, nel silenzio delle proprie scelte.
E allora mi fermo e mi domando: di chi è la storia che vi sto raccontando?
Perché questa non è la mia storia, non è la storia del popolo tanzaniano, non è la storia di tre ex potenze coloniali. Eppure, al contempo, lo è.
Mzungu è il nome, dispregiativo, con cui in Swahili si definisce una persona bianca.
Ho sentito bambini, adulti e anziani dirmelo, ognuno con chiari intenti diversi: chi per scimmiottare, chi per sentito dire, chi per insulto, chi per senso della novità. E ad oggi dico che va bene così.
In realtà quando succedeva non andava bene così manco per sbaglio. E allora avevo deciso che avrei dovuto imparare lo Swahili e che mi sarei dovuta far valere, far rispettare, giocando ad armi quanto più pari possibile. Così ho imparato un po’ di Swahili, con qualche capitombolo linguistico qua e là.
Tipo quando al bar non chiesi una bottiglia, bensì una mutanda, o quando, invece di dire che dovevo bere, dissi che dovevo andare in bagno a fare la numero 2.
Però? Però anche quando le frasi le dicevo bene, in fondo, sempre una mzungu rimanevo.
E se ci penso, alla fine, mi va bene così, perché nonostante questo, la comunità tanzaniana è a tutti gli effetti una delle più accoglienti a questo mondo.
Nonostante Bwaga-Moyo. Nonostante Zoomarine. Nonostante i #veraAfrica.
Ho sentito persone chiedermi se non abbiamo tutti almeno una villa in Europa. Ne ho sentito altre chiedermi se le case sono fatte tutte di fango in Africa.
Allora da che parte scegliamo di raccontarla questa storia oggi?
Nella regione di Tanga ho visto così tante stelle in cielo che il mio cuore a tratti sembrava scoppiare; mi sono ritrovata circondata da una foresta di mangrovie che cresceva nell’oceano; ho osservato “pozze” di barriera corallina viva in mezzo a distese chilometriche di barriera corallina morta a causa del ritiro della marea.


Nella regione di Iringa, al Parco Nazionale del Ruaha, ho camminato su un ponte sospeso sul letto asciutto di un torrente. E con una gamba ingessata e una busta legata al piede. Naturalmente la busta non di plastica, perché in Tanzania sono illegali per combattere l’inquinamento ambientale.
Poi però finanche la carta igienica è sigillata individualmente, rotolo per rotolo, in involucri di plastica e, alla fine della giornata, alla spazzatura danno tutti fuoco, perché non esiste un sistema di riciclo dei rifiuti.
Comunque, dicevo, il ponte con la gamba ingessata.

Nella zona di Stone Town, nella città di Zanzibar, sull’isola di Zanzibar (dopo un po’ ci si fa l’abitudine a questa storia dei nomi), ho guardato i ragazzini fare i tuffi acrobatici in acqua al tramonto e ho nuotato in un punto dell’oceano assolutamente disperso nel nulla, con la marea così bassa da riuscire a toccare il fondale e l’acqua talmente trasparente da avere l’illusione di trovarsi in una piscina infinita.


Ho attraversato momenti di profonda solitudine, lontana da tutti, ma principalmente a volte lontana da me.
Poi ho lavato via il dolore mangiando ananas bollente in mezzo alla strada.
E potrei ancora raccontarvi della Fanta che sa di caramella, della volta in cui mi sono ritrovata con un insetto velenoso ai piedi dell’armadio ed ero lì lì per consegnargli le chiavi di casa, delle Birkenstock crepate e spaccate in due a causa del caldo eccessivo, della musica di Marioo, delle meravigliose coreografie degli studenti del College delle Arti di Bagamoyo (Tasuba), dello stile di vita lento e rilassato di tutta la nazione, degli avocado grossi quanto un mio avambraccio e dal sapore indescrivibile, o delle allucinazioni da malaria.
Ma queste cose le lascio descrivere a chi ha visto la vera Africa, ovunque e qualunque cosa essa sia.
Io mi accontento di aver “lasciato lì il mio cuore”.
E di aver imparato la differenza tra una bottiglia e una mutanda.
Attivista per i diritti umani, classe 1995, cosentina, cosmopolita, bilingue (Inglese e Italiano, ma ce la sta mettendo tutta anche con lo Swahili!).
Laureata in Politica Internazionale alla SOAS University e specializzata in Diritti Umani alla UCL, entrambe prestigiose università di Londra, completa i suoi studi a soli 22 anni e da lì in poi si dedica ai diritti di richiedenti asilo e rifugiati politici.
A giugno del 2021 si specializza ulteriormente in Comunicazione e Lobbying nelle Relazioni Internazionali presso la SIOI e da luglio dello stesso anno vive e lavora in Tanzania seguendo un progetto per i diritti delle lavoratrici domestiche tanzaniane fino al 2022.
Co-autrice del corto “Non Solo Un Volto” sulla comunità LGBTQI+ cosentina.
Appassionata di politica, attualità, serie TV e scrittura!