Sulla banalità dell’asterisco nel linguaggio contemporaneo

"Il richiamo ad espedienti come l’asterisco, piuttosto che neutralizzare le discriminazioni, le sottolinea, le ripristina e ci divide. Nessuno di noi fa caso al genere maschile o femminile (gente o popolo) perché sappiamo che la sua applicazione è inclusiva e non escludente nessuno."

A tutti voi sarà capitato di scorrere la home di Facebook o la chat del telefono e vedere qualcuno utilizzare una terminologia del tipo: tutt*, ragazz*, quell*, etc.  Sebbene, infatti, l’asterisco venga utilizzato negli articoli o nelle sottotitolature come elemento grafico per oscurare una parolaccia o un’offesa – come se nessuno riuscisse a carpirne il senso originale – la terminologia succitata si riferisce a tutt’altro, avendo a che fare piuttosto con la necessità di rendere la nostra lingua il più inclusiva possibile nel tentativo di parificare i sessi e non discriminare nessuno.

A fronte di un mondo sempre più plurale ed eterogeneo, l’inclusività è un valore costituente delle società moderne. Ma è la grammatica a rendere inclusiva e non discriminatoria una lingua? Siamo proprio sicuri che “contromisure” come l’asterisco non finiscano per sortire l’effetto opposto a quello desiderato?

Il problema della lingua italiana

La questione alla base di dette “contromisure” deriva dal fatto che l’italiano – come tanti altri idiomi – è una lingua flessiva e non isolante: vede declinati per genere, maschile e femminile appunto, oltre ai pronomi, anche gli articoli e i sostantivi. Per farla breve, a differenza dell’inglese dove troviamo insieme a sostantivi declinati per genere (es: husband/wife, sister/brother) anche un’alternativa di genere neutro (spouse, sibling), l’italiano ha solo due generi grammaticali: maschile e femminile. Questo accade perché, pur essendo una lingua neolatina, ciò che non ha ereditato è il neutro, anche se pure in quel caso, come evidenzia Dolomiti Stefania Cavagnoli docente trentina di glottodidattica e linguistica applicata all’Università di Roma Tor Vergata, «avremmo dovuto trovare una terza via per identificare chi non rientra nel binario di genere, perché non ci stiamo riferendo ad oggetti o cose ma a delle persone».

Da dove nasce il problema?

Semplicemente dal fatto che nel caso di moltitudini miste è previsto che si ricorra più spesso al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: quando sono presenti uomini, sia pure in minoranza, entro un gruppo numeroso, si ricorre al maschile per declinare il plurale (tutti, ragazzi, uomini, quelli, molti etc.). L’uso del maschile sovraesteso nella formazione del plurale, invalso nella prassi linguistica da sempre, viene così tacciato di non essere inclusivo e rispettoso oltre che del genere femminile, anche di coloro che non si rispecchiano all’interno della binarietà dei generi (gender fluid) o delle persone intersessuali.

È proprio dall’accusa di essere “escludente” rivolto al maschile sovraesteso che nasce l’esigenza di elaborare una soluzione grammaticale differente, capace di soddisfare la richiesta di giustizia di genere anche all’interno della lingua. Da qui la scelta di eliminare la desinenza maschile plurale per sostituirla più comodamente, perlomeno da telefono, con l’asterisco *.

C’è un po’ di confusione in materia

Riprendendo un’argomentazione di Cecilia Robustelli, una delle più importanti linguiste italiane, nota soprattutto per le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, ciò che si confonde è la distinzione fra genere grammaticale, sesso e genere socioculturale.
Citando la linguista in una recente intervista su noto giornale: «il genere grammaticale delle parole, che indicano esseri animati, rappresenta una modalità antichissima di classificazione in base alle caratteristiche sessuali, presente in molte lingue. Il genere grammaticale viene assegnato in base al “sesso” (biologico, n.d.r.) di una persona, cioè alla sua appartenenza al sesso maschile o femminile. Il genere grammaticale quindi non ci dice niente riguardo al genere socioculturale, che invece ha un rapporto con il sesso, perché è l’interpretazione sociale dell’appartenenza sessuale, un tratto continuamente in discussione, dinamico, che cambia col tempo e in base alle persone con le quali parli, alla loro cultura, al loro modo di essere, all’identità che vivono e si attribuiscono. Quello che credi, che pensi, lo espliciterai parlando di te, col tuo comportamento, e la società o le persone con cui sei lo interpreteranno in base al loro modo di pensare.».

Il problema deriva dal fatto che non esiste alcuno strumento per usare la lingua italiana, come le altre lingue, senza genere grammaticale. Sebbene sia possibile ricorrere a terminologie più generiche, come ad esempio quella di persona/individuo, gente/popolo, avremo sempre una corrispondenza di genere grammaticale. L’identificazione sessuale all’interno del genere grammaticale è una forzatura del linguaggio che non c’entra nulla col genere grammaticale. Infatti, il genere grammaticale costituisce semplicemente una modalità di classificazione al fine di rendere coeso e coerente un testo. Parafrasando la Robustelli, tutte le forme elaborate al fine di evitare a livello linguistico un’identificazione con il sesso, pagano un prezzo alto, ossia l’incomprensione, la difficoltà di costruire frasi e poi discorsi e la leggibilità; questo perché «se manca il genere grammaticale, le parole galleggiano in un testo e, dunque, lo rendono incomprensibile».

La banalità dell’asterisco

La duplicazione delle forme (“lui/lei”) – certamente più tollerabile – o l’uso dell’asterisco sono soluzioni inefficaci, grezze, grevi e anche, a parere di chi scrive, stilisticamente raccapriccianti. Appesantiscono eccessivamente il testo rendendolo meno scorrevole, ma il caso dell’asterisco è ancora più grave, poiché limitato al solo linguaggio scritto, in quanto non esiste un fonema corrispondente nel linguaggio verbale, ed è un elemento grafico che non si ritrova in alcun modo nel nostro alfabeto e in quelli altrui.

L’asterisco, inoltre, integrato e ammiccante il linguaggio generato dai computer o dai cellulari, sposta il bersaglio dell’esclusione su un piano diverso, instillando il senso di colpa in soggetti del tutto privi di cattive intenzioni: chiunque entrando in una stanza dica “ciao ragazzi” – a meno di essere dei sospettosi malpensanti – non ha, né vuole escludere proprio nessuno; anzi, la sua intenzione, e il significato di quell’espressione, viene percepito proprio in tal senso: siamo tutti inclusi nel suo saluto e non a caso tutti rispondiamo. Dunque, da questo punto di vista, l’uso dell’asterisco è anche controintuitivo rispetto alla normalità delle relazioni sociali tra gli individui.

Ma c’è una cosa ancora più grave: l’uso dell’asterisco allude subdolamente al fatto che alla base dell’ingegneria linguistica vi sia un aberrante programma discriminatorio del potere patriarcale che non necessariamente, né tanto più scientificamente, può considerarsi presente. Come se la lingua fosse stata creata a tavolino per pigiare donne o altri gruppi in un angolo dal maschio bianco etero.

Vi sono parole, per esempio, che sono nate anticamente in modo funzionalmente offensivo o perlopiù tese a sottolineare un aspetto deficitario. Il termine imbecillitas nasce nel diritto romano per indicare la debolezza della condizione femminile che le impediva di aver parte a qualsiasi esercizio della funzione pubblica stante la sua “impotenza fisica” che la rendeva inidonea alla guerra. Il termine è stato trasfuso in italiano nel sostantivo e aggettivo sia maschile che femminile “imbecille”. È evidente che ciò non sia avvenuto nel quadro di una politica linguistica tesa a parificare i sessi, avendo seguito, probabilmente, un’evoluzione che ha percorso strade e filoni per lo più dettati da una prassi miope e non da intenzioni specifiche e/o programmate.

Non a caso, come afferma Paola Mazzei, archeologa e studiosa di lingue antiche, sebbene molte soluzioni linguistiche sembrerebbero più inclusive e meno androcentriche dell’italiano o di altre lingue moderne, ciò non significa che fossero espressioni di una società in cui non fossero in condizione di subalternità; e di certo lo stesso può dirsi temporalmente al contrario.

Sul significato delle parole

D’altronde, la desessualizzazione della lingua dipende sostanzialmente dall’uso che dei termini facciamo, non dalla struttura grammaticale o sintattica che quelle parole assumono. Non a caso, questo raggiungimento culturale ci consente di utilizzare alternativamente i due generi, maschile e femminile, anche l’uno al posto dell’altro.

Qual è il significato delle parole?

“Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”, così scrive Ludwig Wittgenstein all’interno delle Ricerche filosofiche. Senza girarci troppo intorno: la struttura sintattica, grammaticale di una lingua non è sufficiente a spiegare il significato delle parole che usiamo quotidianamente. Quel significato dipende da come il linguaggio viene praticato all’interno di una determinata comunità nelle relazioni fra gli individui che la compongono. L’uso, in altre parole, è una regola di significato.

La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, utilizzava sia il termine “uomo” che quello di “cittadino” con riferimento ai soli esseri umani di sesso biologico maschile che avessero la cittadinanza; non a caso, di tutta risposta, Olympe de Gouges del 1791 scrisse la speculare Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Perché? Perché il primo termine era evidentemente escludente di una precisa categoria: quella delle donne. Lo stesso varrebbe per il termine “uomo” e “umanità”, per esempio, nel mondo del fondamentalismo islamico, teso ad escludere non soltanto la popolazione femminile, quanto pure quella non islamica di qualunque sesso. Ma nessuno si sognerebbe di asserire che quando l’art.2 della Costituzione Italiana dispone che la Repubblica “riconosce a tuttI i diritti inviolabili dell’UOMO” essa si stia riferendo soltanto agli esseri umani di sesso maschile aventi la cittadinanza italiana.

Questo per dire cosa?

Che la terminologia in uso è applicata in modo fortemente desessualizzato e neutrale. Il richiamo ad espedienti come l’asterisco, piuttosto che neutralizzare le discriminazioni, le sottolinea, le ripristina e ci divide. Nessuno di noi fa caso al genere maschile o femminile (gente o popolo, indicano la stessa cosa) perché sappiamo che la sua applicazione è inclusiva e non escludente nessuno. Il ritorno delle ideologie, anche di quelle che hanno scopi buoni e giusti, finisce per polarizzarci irreggimentandoci in categorie mentali che, nell’ansia di fare la cosa giusta o auspicabile, non solo non neutralizzano il genere come strumento valutativo e discriminatorio – ciò che vorremmo tutti in un contesto di parità – ma non fanno altro che corroborarlo, ripristinandolo e dando nuova forza a conflitti che almeno per alcuni aspetti, come quello linguistico, risultano in buonissima parte superati.

Detto ciò, a voi tutt*, l’ardua sentenza.

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