Come la comunicazione dei politici ti frega

A fronte dell'amplificazione delle capacità di raggiungere tutti grazie ai moderni mezzi di comunicazione, la politica è sempre più altra da sè. In cosa si sono trasformati eletti ed elettori?

Com’è cambiata la comunicazione politica?

Cominciamo col dirlo subito: la logica populista ha vinto. Sia chiaro, la demagogia esiste da sempre. Ciò che è cambiato però, sono le modalità attraverso cui politici “arruffapopolo” perseguono l’obiettivo di creare e mantenere il consenso. E mai, come nell’ultimo secolo, l’incessante e repentino modificarsi dei mezzi di comunicazione ha condizionato la politica e i suoi scopi.

La ricerca di mezzi attraverso cui bypassare gli intermediari e rivolgersi direttamente all’elettorato è, quindi, uno dei temi fondamentali della storia della democrazia. Negli ultimi vent’anni, infatti, il processo di disintermediazione della comunicazione politica ha subito un’improvvisa accelerazione. Prima che la politica facesse il suo dirompente ingresso nella televisione era la carta stampata ad intermediare il rapporto tra eletti ed elettori.

La stampa – da sempre – non ha solo spiegato o narrato gli accadimenti, ma ha assunto su di sé un ruolo guida, fornendo all’elettore gli strumenti necessari per l’interpretazione del mondo politico. È qui, e non sui patinati scranni del Grande Fratello, che nasce la figura dell’opinionista.

Con l’avvento della televisione, e dei talk show in particolare, questo rapporto è cambiato: il politico compare nei salotti televisivi parlando direttamente con il suo pubblico – gli elettori- e con una platea ancora più ampia di potenziali elettori.

Senza che vi fosse la necessità che il giornalista raccontasse la politica, la politica, così, si auto-raccontava.

Ma è con i social network che si realizza il cambio decisivo.
Il palcoscenico si sposta dai salotti della tv, direttamente sullo smartphone: il politico impone la narrazione mentre il contradditorio e il fact-checking sono abrogati.

I social network consentono ai politici di fare tre cose:

  1. Ampliare la loro platea arrivando a tutti
    È così infatti che si è creato il fenomeno della pop politics, di cui i meme e i video satirici sono l’espressione più diffusa. D’altronde, quanti potenziali votanti poteva raggiungere un talk show, oltre quelli già interessati a priori alla politica?
  2. Parlare di tutto
    Il condizionamento e la formazione del consenso si fanno strada, non più attraverso i programmi elettorali (non a caso questi sono andati progressivamente appiattendosi, somigliandosi per molti versi gli uni agli altri), ma tramite interazioni su qualunque argomento considerato rilevante per il pubblico sulla base dei trend in voga.
    Non esiste differenza tra argomento politico e non, evento piccolo o grande: ogni occasione, ogni gesto (le foto con gli animali dissipate sui profili dei leader sono esemplari), diventano determinanti per creare influenza.
  3. Modificare il messaggio in modo da renderlo alla portata di tutti
    Con la televisione, i messaggi dei politici erano tendenzialmente generalisti e unilaterali, motivo per cui i TikTok di Berlusconi sono ancora in 16:9, seguendo un’impostazione tragicomicamente televisiva.
    I social, invece, consentono di inviare messaggi specifici e multidirezionali.
    I politici, attraverso le piattaforme, si rivolgono ai propri elettori-follower e a quei soggetti che potenzialmente potrebbero diventarlo. Non solo, lo scambio è talmente diretto che è possibile un’interazione praticamente a tu per tu con il leader.

Grazie alle piattaforme social, la politica si subordina alle logiche dell’economia, prendendone in prestito meccaniche e strumenti: i social (il mercato) diventano lo spazio in cui il politico (l’offerta), dopo aver effettuato le opportune indagini (tramite i dati), seleziona una nicchia di persone (crea un target, una domanda) cui mandare dei messaggi con modalità persuasive (pubblicità, slogan tradotti in hashtag e tweet) per ottenere un guadagno specifico (il consenso).

Il cittadino-elettore viene trattato come un “consumatore di politica”: l’offerta tenta quanto più possibile di avvicinarsi alla domanda o, più sottilmente, di plasmarla. Il tutto in maniera diretta, istantanea e, ancor peggio, ininterrotta. L’abilità del leader politico è oggi, principalmente, quella di risvegliare il corpo elettorale dal proprio torpore e mobilitarlo verso i seggi.

Si appella primariamente all’emotività della massa, attraverso brevi slogan che soddisfino in pochi secondi l’orecchio di chi li ascolta: non solo con la scelta dei temi più sentiti, ma soprattutto con la formulazione delle risposte che i più vogliono sentire.

Il capo rinuncia così alla propria funzione: il fine non è guidare, ma semplicemente reclutare. Accanto a questo convive il paradosso di crescente astensionismo elettorale e disinteresse politico, cui non sembra si voglia porre rimedio.

Forse perché il mercato politico ha una differenza di fondo rispetto a quello economico: non importa il volume complessivo della domanda, basta saperne intercettare una relativa maggioranza, al netto degli astenuti.

Quali sono i rischi?

La polarizzazione delle opinioni

Sei pro o contro i vaccini? Pro o contro l’immigrazione? Pro o contro l’adozione di bambini da parte di coppie omogenitoriali?

La polarizzazione è quell’atteggiamento per cui qualunque problema può essere proposto e successivamente risolto sulla base di un’alternativa secca: sì o no, pro o contro, amico o nemico. Ciò, non a caso, nel linguaggio social si traduce in un mi piace/non mi piace. La polarizzazione si fonda sulla semplificazione, cioè sull’idea che tutto possa essere interpretato in maniera semplice, e sul rifiuto totale e incondizionato della complessità.

Le argomentazioni sono silurate come noiose, o piuttosto come giochi di prestigio verbale dietro i quali celare con l’inganno menzogne scabrose. In breve, la complessità è marcia.

La polarizzazione offre una scorciatoia utile a “superare” i problemi di cui, necessariamente, si occupa la politica.
Un esempio: la questione dell’immigrazione viene liquidata con o un “accogliamoli tutti”, o un “blocco navale e chiusura dei porti”.

La polarizzazione, inoltre, ha un effetto tutt’altro che secondario: lo scontro violento esteso ai cittadini-elettori.

La rissa da talk show tra politici , si trasfigura in quella social, tra elettori: il clima da tifoso (v. infra) si traduce nella logica amico-nemico che, fidelizzato al leader, si lancia in commenti sgradevoli sui social. Accuse reciproche che rappresentano la semplificazione di quel mondo diviso in due che, invece, come qualcuno con ingenuità bonaria sosteneva, i social avrebbe dovuto unire.

Se ogni questione può essere risolta in soli due modi (pro/contro), ci sono solo due schieramenti possibili: a sole due frange si può appartenere; e quindi, solo due schieramenti si possono formare.

In ciò consiste l’operazione di targetizzazione che i social, grazie ai potenti strumenti di web analysis, consente di compiere. Tramite big data, cookies e più tradizionali forme di raccolta di informazioni sugli elettori, come le survey, è possibile misurare non soltanto le performance di un’inserzione, ma anche la sua capacità di generare mobilitazione.

Le analisi delle emozioni da parte dei social media, infatti, aiutano a verificare il livello di engagement e mobilitazione del proprio pubblico sui singoli messaggi, sulle tematiche trattate e sull’immagine del leader, consentendo quindi di aggiustare di volta in volta la portata del messaggio in modo da colpire la sfera degli indecisi con una comunicazione mirata.

Da ultimo, la polarizzazione populista nega la normale articolazione della società, caratterizzata dalla compresenza di interessi divergenti, parlando invece al popolo nella sua interezza: una massa omogena i cui cuori battono all’unisono. Questa articolazione verticale basso vs. alto, che soppianta quella tradizionale orizzontale, tipica dei partiti di massa della seconda metà del ‘900, assolve ad una duplice funzione.

Da un lato, semplifica la realtà, esentando la classe politica dalla ricerca di un’intesa tra interessi differenti. Dall’altro, sposta lo scontro dal piano politico a quello morale, traducendo le posizioni di chi la pensa diversamente, come contrapposte al benessere della nazione, esasperando paradossalmente la conflittualità tra i cittadini.

La personalizzazione della politica

L’eliminazione di ogni distanza viene realizzata anche attraverso un processo di “intimizzazione” del leader. I leader si comportano come uomini e donne “comuni”, riproducendo gli stili di vita e le azioni quotidiane delle persone, dimostrando dunque di poterne rappresentarne i bisogni e di empatizzare con loro.

La personalizzazione scarnifica la politica della sua specificità: non serve essere autorevoli o competenze particolari per fare politica. Qualunque persona può farlo.
Essa, inoltre, amplifica il naturale processo di “proiezione” e “identificazione”, ovvero quel meccanismo per cui, da un lato, si attribuiscono ai leader idee e aspirazioni che sono nostre, dall’altro, si sedimenta l’idea che certi candidati ci somigliano e quindi meritano il nostro voto.

Ma in una società liquida, in cui nulla è sufficientemente strutturato da prendere forma e durare, anche i partiti e i leader politici sono diventati estemporanei, quasi usa-e-getta: le grandi infatuazioni elettorali si estinguono con tanta più rapidità quanto più deflagrante era stato il loro divampare. Una giostra che accelera sempre più, in un movimento circolare che non porta mai realmente da nessuna parte.  

Siamo elettori-tifosi

Il voto emotivo/di pancia, la polarizzazione, lo scontro violento, la personalizzazione della politica, trasformano l’elettorato. La politica è un (video)gioco, una partita a due dove il clima da stadio e il carattere emotivo delle reazioni producono un (video)tifoso

Il tifoso di partito segue esattamente le stesse primordiali pulsioni: l’insulto da stadio rivolto al tifoso avversario, l’odio viscerale nei confronti dell’antagonista politico, il continuo urlare contro lo schermo, lo slogan ripetitivo cantato in coro, la pronta giustificazione della propria squadra qualunque cosa faccia, il continuo incolpare gli altri, la ricerca spasmodica del broglio dell’avversario.

Se è vero che i politici ci fregano con i social, noi, non da meno, ci stiamo fregando della politica.

Perché se è vero che il calcio è la religione di Stato, allora è stata l’attuale politica a renderci tutti tifosi.

Lascia un Commento