"La sindrome di Stendhal, per la quale vengo spesso derisa, è esattamente questo: un irresistibile incubo ad occhi aperti. La capacità di percepire la vita dove vi sono solo tempere, marmo, colori ad olio. La dannazione di percepirla con ogni nervo, quella vita. Ed è meraviglioso. Terrificante, ma meraviglioso. Forse è la forma più pura di ammirazione che esista. Un voto all'artista e ai suoi messaggi. Non siamo pazzi: siamo sacerdoti che detengono il segreto ultimo dell'arte stessa."

Partiamo dalle cose basilari: è invalidante, tanto. Perché? Perché si sviluppa con maggiore incidenza nei soggetti che amano profondamente, visceralmente, ferocemente l’arte. Sicché ti ritrovi, come la sottoscritta, ad essere perennemente scambiata per non vedente perché entri nelle cattedrali con gli occhiali da sole; ad essere perennemente scambiata per una ladra particolarmente goffa perché ti affacci nelle stanze dei musei, con fare circospetto, per capire in anticipo cosa ti attende; ad essere perennemente scambiata per idiota perché “che ci vai a fare alle mostre se ti guardi perennemente le scarpe?”.

La risposta è sempre una: ho la sindrome di Stendhal – o sindrome di Firenze o, ancora, sindrome di Santa Croce, che dir si voglia.

È un disturbo psicosomatico che può manifestarsi con sintomi più o meno gravi. Siccome la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo e prende pure la mira, io ne soffro in maniera abbastanza consistente.

Questo disturbo (la cui natura di “malattia psichiatrica” è ancora dibattuta) deve il suo nome allo scrittore francese Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle, che ne accusò la sintomatologia durante il suo Grand Tour del 1817. Riportò poi le proprie sensazioni nel libro “Roma, Napoli e Firenze” condividendole col mondo e permettendo a Graziella Magherini – psicanalista italiana di scuola freudiana – di “tipizzare” per la prima volta la sindrome dal punto di vista scientifico, quasi due secoli più tardi. Porta anche il nome di sindrome “di Firenze” o “di Santa Croce” perché, spesso, le persone scoprono di soffrirne proprio visitando Firenze e, in particolare, la Basilica di Santa Croce.

La stessa Magherini si trovò infatti a soccorrere, nell’ospedale fiorentino in cui lavorava, centinaia di turisti arrivati in preda ad allucinazioni, disturbi dell’umore e del pensiero, attacchi di panico e generale agitazione. Il disturbo psicosomatico, in tutte le sue varianti, si manifesta quando, chi ne soffre, si trova ad ammirare delle opere d’arte – anch’esse di vario tipo – di particolare bellezza.

Siccome la sottoscritta è un cliché ambulante, ha scoperto di soffrire della sindrome di Stendhal proprio dentro la Basilica di Santa Croce. Che poi viene da dire “una romana DOC che si sente male per delle opere d’arte a Firenze fa abbastanza ridere”, e non me la sento di darvi torto. Ma tant’è.

Ho scelto di narrare le mie peripezie perché di questo disturbo non se ne parla poi molto nonostante colpisca una buona percentuale di persone in tutto il globo. Gli italiani sono tra coloro che ne soffrono di meno perchè si pensa che, in qualche modo, siano “assuefatti” alla bellezza artistica, essendo l’Italia stessa un enorme museo. Ma io, oltre ad essere un cliché, sono anche l’eccezione che conferma la regola.

AVVISO AI MIEI COMPAGNI DI SVENTURA: il pezzo, da qui in poi, conterrà le riproduzioni di alcuni dipinti che scatenano particolarmente il mio disturbo. Se siete altamente sensibili, chiudete la pagina: sapete di cosa sto parlando e avete avuto la conferma di non essere soli. Prima o poi faremo un bell’aperitivo per piangere tutti insieme.

P.S.: ringrazio sin d’ora l’anima pia che inserirà le immagini a pezzo finito. Ho la sindrome di Stendhal, mica sono scema.

Bronzino, Discesa di Cristo al Limbo, 1552, olio su tavola, Museo dell’Opera di Santa Croce, Firenze

Una ricerca durata ben quattordici anni. Nonostante la prima crisi mi abbia colpita davanti ai miei genitori, nessuno ricordava quale opera l’avesse causata. Non eravamo neppure sicuri si trattasse della Basilica di Santa Croce dal momento che, durante quel viaggio, girammo giorni interi per tutta Firenze: all’epoca avevo tredici anni e capite bene che, a distanza di tempo, i ricordi diventano vaghi. Sono arrivata finanche a dubitare dell’esistenza di quella benedetta opera. Nonostante tutto, quattordici anni dopo, mio padre ha risolto l’arcano interpellando il signor Google per un intero pomeriggio (in famiglia andiamo in fissa facilmente, ça va sans dire): il Bronzino, nel lontano 1552, doveva farsi i dannati affaracci suoi.

Guardate bene l’immagine (non me ne vogliate ma io mi limiterò a descriverne il ricordo). Ingrandendola, noterete in alto a sinistra la porta dell’inferno con tutti quei meravigliosi demoni. L’episodio descritto nel dipinto si trova nel Vangelo Apocrifo di Nicodemo (21-24) e nella Legenda Aurea secondo cui Cristo (al centro del dipinto con in mano la croce astile con vessillo), a seguito della resurrezione, scese negli inferi per liberare i meritevoli.

Ebbene, la narrazione iconografica è invertita: canonicamente, nella parte inferiore delle opere, troviamo gli inferi, nella zona mediana il limbo e nella parte alta le figure paradisiache.

Qui no. Eh. Qui no. E io non lo sapevo.

Guardando dal basso verso l’alto questo enorme dipinto che mi si parava davanti (a onor del vero, già ero alquanto inquieta per quanto visto in precedenza), mi ritrovai con somma sorpresa a osservare dritto negli occhi questo demonio spietato. Le pennellate, diversamente dal resto della tavola, sono decisamente più sommarie, la figura sembra essere abbozzata con un gioco di prospettive appena accennato.

Pochi dettagli, colori cupi che contrastano con il fascio di luce centrale indirizzato verso il Cristo. I demoni emergono, letteralmente, dal fondale. Tutto calcolato al millimetro: la figura demoniaca abita gli incubi degli esseri umani e, come tale, si sfuma nel delirio onirico. È proprio la vaghezza dei contorni a rendere inquietanti gli incubi, no? Nell’osservatore devono rimanere impressi solo questi enormi occhi bianchi, bramosi, in netto contrasto con l’alone torvo del terzo piano.

Dettaglio “Discesa di Cristo al Limbo”, Bronzino, olio su tavola, 1552, Museo dell’Opera di Santa Croce, Firenze

Nel mio cervello, complice la sorpresa, non sono rimasti impressi: sono rimasti piantati. Mi hanno completamente risucchiata. Ho percepito distintamente il moto attrattivo che mi avrebbe portata giù con loro.

Questo si è tradotto nelle mie urla forsennate, i palmi delle mani spinti sulle palpebre serrate fino a comprimere la circolazione nei bulbi. Sono caduta a terra, implorando mio padre di portarmi via il prima possibile. Ero rimasta impietrita, come se avessi guardato la Medusa dritta negli occhi.

E veniamo proprio a lei. Oserei dire la mia Lei. La mia opera preferita, quella che considero un vero e proprio prodigio di un genio dannato. Un parossismo di abilità artistica e sofferenza disumana.

Michelangelo Merisi in arte Caravaggio, Medusa, 1596-1598, dipinto a olio su scudo convesso, Galleria degli Uffizi di Firenze

Ora, sindrome di Stendhal a parte: chi, osservando questo personaggio mitico, non ha avuto paura di subire davvero la triste sorte di chi osava affrontarla? Chi se la sente di dire che non determina alcuna partecipazione emotiva? Certo non io. Io non riesco neanche a vederla sullo schermo del cellulare, ma ho avuto l’onore di vederla dal vivo almeno una volta nella mia vita.

Ripensandoci, avrei fatto bene a farmi un giro in qualche spiaggia caraibica invece di andare a Firenze. Quella che osservate sembrerebbe essere in realtà una copia di mano, priva di pentimenti, dello stesso Caravaggio. La prima versione è infatti conservata in una collezione privata, ma sembrerebbe surclassare la seconda solo perché reca la firma dell’artista impressa nel sangue che sgorga dalla testa della Gorgone.

L’iconografia è la più classica, cara a Esiodo e Ovidio: Perseo decapita la Medusa evitandone lo sguardo pietrificante con lo stratagemma dello scudo. Ok dai, nulla di nuovo nel soggetto. Al liceo classico si contano circa tremila versioni fatte sul tema. Cos’è, quindi, che rende straordinaria l’opera tanto da essere una sorta di maledizione per le persone affette dalla sindrome di Stendhal?

Il πάθος, pathos. Il Merisi, a mio modesto avviso, con la Medusa ha dimostrato il massimo della sua abilità (per me, il massimo dell’abilità pittorica in generale): il cono di luce proviene dall’alto (caratteristico dello stile di Caravaggio) e proietta l’ombra della testa sul fondo verde dello scudo, compiendo un vero e proprio miracolo d’illusione ottica. Gli astanti hanno infatti l’impressione di osservare una testa fluttuare nel vuoto, con un saggio di tridimensionalità che di rado ho ritrovato in altri artisti. La Gorgone è ritratta nell’atto di urlare, un’ultima volta. La bocca, muta e assordante, si spalanca grottesca per l’ultimo anatema indirizzato al genere umano tutto.

Solidale con Eva, opposta alla Salvezza del Cristo, danna questi insignificanti omuncoli che hanno compiuto cotanto oltraggio. La rabbia, cieca, affamata, infinita, ancestrale è tutta negli occhi. Quegli occhi così totalizzanti che di umano hanno solo la fronte corrucciata. Sprigiona tutta la potenza dell’idolatria pagana con un’onda d’urto che piega la stessa San Pietro. Che piega gli uomini. Che piega la nostra salvezza.

È, insomma, di una bellezza terribile che, ad ogni occhiata, ruba un po’ di quanto si è guadagnato col battesimo.

E, secondo voi, che impatto può avere una cosa del genere su chi soffre della sindrome di Stendhal? Ve lo lascio immaginare. Sono stata assalita da profondi conati: percepivo nello stomaco la sua sofferenza. Avevo la certezza che mi avrebbe mangiata, con quella bocca così bestiale. Ho sentito il suo urlo dritto nel petto, più forte di un pugno. Le sue serpi si sono insinuate nella testa, oltre il timpano, veicolando i suoi rantoli. Mi ha ghermita e, forse, ancora non mi ha lasciata andare.

La sindrome di Stendhal, per la quale vengo spesso derisa, è esattamente questo: un irresistibile incubo ad occhi aperti. La capacità di percepire la vita dove vi sono tempere, marmo, colori ad olio. La dannazione di percepirla con ogni nervo, quella vita. Ed è meraviglioso. Terrificante, ma meraviglioso. Forse è la forma più pura di ammirazione che esista. Un voto all’artista e ai suoi messaggi. Non siamo pazzi: siamo sacerdoti che detengono il segreto ultimo dell’arte stessa.

La completa, ineluttabile, indesiderata partecipazione.

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