Questo 2020 mi ha insegnato a mettere ogni cosa in discussione.
Ci sono stati giorni in cui la paura ha fatto capolino, non lasciando spazio a respiri ampi e misurati, ma facendo allargare il petto in segno di rassegnazione, misto a quelle rughe sulle sopracciglia che sciupano, non più la propria immagine, ma la nostra vita.
Ma la vita, almeno la mia, ha fatto in modo che io mi mettessi in discussione già da prima, tante volte senza rendersi conto, tra sbalzi d’umore e sorrisi rubati, di quanto sia stata scomoda e troppo, a volte in maniera estenuante, puntuale.
Come ci si sente quando siamo sotto pressione? Come ci si sente quando non siamo felici?
Vi racconto la mia storia, non esterna, ma quella che colpisce dentro, dal pugno allo stomaco, agli incubi notturni.
Sono nato tardi, ma sono nato. Grato sempre a chi mi ha portato su questo mondo. Ho sempre vissuto una vita piena, colma di ciò che di più bello si possa desiderare: una straordinaria famiglia, un’educazione curata, un profondo senso di condivisione.
Sono nato agognando il successo, rincorrendo obiettivi per essere il meglio, il migliore, la versione più alta di me e soprattutto, degli altri. Segretamente e falsamente umile, a volte, ho teso la mano e riconosciuto lo sguardo di chi mi stava accanto, ma i miei desideri, i miei sogni, le mie proiezioni superavano l’interesse nei loro confronti ed avevano come unico titolo, me stesso.
Viziato. Sì, tanto, a volte troppo. Viziato da chiunque, ma falsamente sicuro di me.
Sapete, spesso, rincorrere le proprie aspettative e favorire quelle altrui, diviene il compito, forse l’unico, di una vita intera.
Ho sempre voluto tutto. Ho sempre preteso tutto e subito. Non ho pazientato, non ho guardato in faccia nessuno, perché tutto ciò che volevo guardare ero io con le mie vittorie. Perdere non era contemplabile.
La mia situazione familiare, comoda e rosea, ha favorito questo mio essere perfettamente in linea con il mio essere, un falso cattolico perbenista dal grande cuore e dalle tante paure, ma con una facciata costruita a dovere per apparire agli altri quale impeccabile. Creare invidia.
18 anni. Avevo 18 anni quando volevo mangiare il mondo. Quella è l’età che dovrebbe permetterti di cambiare, secondo quello che ci insegnano. Quella è l’età in cui il tuo futuro deve iniziare a disegnarsi e diventare nitido. Quella è l’età in cui ti devi sentire libero e responsabile di prendere le tue decisioni, in autonomia.
Ma cosa succede se quelle aspettative, quei sogni, non coincidono quasi completamente con quell’assetto che ti eri ben costruito? Ecco, che tutto ciò che ero, che ho condiviso con te che stai leggendo, in me, non esisteva più.
Finalmente, ho iniziato a vedere, a vedermi per quello che ero, spingendo lo sguardo oltre quelle aspettative e quei desideri, che, forse, non appartenevano più a ciò che ancora sono.
Bada bene, lettore, ti potresti ritrovare in me ad altra età, o magari non esserti mai trovato in una di queste situazioni, ma scommetto, scommetto fortemente, che tu ti sia messo in discussione, almeno una volta nella vita.
Uno di quei discorsi che fai mentre ti radi la barba la mattina o mentre stai facendo una doccia calda dopo una corsa mattutina che pensi possa rilassare i tuoi nervi. Quando ti chiedi “che cosa ho costruito nella mia vita?”, “Ma che direzione sto prendendo?”, “Sto facendo la cosa giusta?”.
E tutto svanisce. La tua giornata prende una piega differente, non sei più solo, ma quel “te”, segue ogni movimento ed in ogni scelta, ti chiede di richiamarlo e di renderti felice, almeno un po’ di più.
Dopo quasi 12 anni dai miei primi 18 anni, mi trovo, come ogni anno, a dover fare i conti con me stesso, tra incertezze, tristezza e compromessi.
Ma se questa volta non scegliessi di scendere a compromessi? Ma se questa volta non scegliessi di seguire ciò che “dobbiamo” seguire? Ma se questa volta non scegliessi di non ascoltarmi?
Questo periodo di grande paura, appesantito, almeno nel mio caso, da quegli incidenti che la vita vuole farti vivere, mi parla di grandi possibilità, ma ha il sapore di paura ed anche di troppa incertezza.
Non so, caro lettore, se ti senti come me. Spaesato.
Io mi sento così, tra persone che continuano a vantarsi di ciò che hanno ed io, che posso solo dire di non avere nulla tra le mani, niente di ciò che avrei “dovuto” avere e ciò che avrei realmente voluto.
Mi sento spaesato, perché ancora oggi, mentre tutti corrono su tacchi vertiginosi in tribunali e salotti, o con scarpe comode tra reparti e corridoi di ospedali, io ancora non conosco il senso della mia giornata.
È quasi l’una del mattino mentre scrivo, eppure, non ho minimamente idea di ciò che farò domani. Anche facendomi un programma, sarebbe vuoto.
Sai, caro lettore, io pensavo di essere il meglio, ma non sono altro che la “media”. Quella che non volevo e che soprattutto schifavo, perché mi faceva paura, aveva il sapore di mediocrità, di dimenticatoio.
Sai, caro lettore, non sono un medico e non voglio esserlo; non sono un avvocato e non voglio esserlo; non sono un professionista riconosciuto e, anche in questo caso, non voglio esserlo. Sai, caro lettore, non sono altro che me stesso e per quanto, spesso, non voglia esserlo, devo accettarlo. Non sono la versione migliore, ma sono l’unica versione che ho.
Con questo, evitando ciò che si potrebbe dire in un bacio perugina, voglio consigliarti di non affannarti a cercare te stesso, perché perderesti tempo a cercare qualcosa che non accetteresti mai pienamente. Il mio consiglio risiede in ciò che vedi.
Impara a convivere con te stesso, cercando di non scendere a compromessi con il tuo portafogli, perché tornando a casa, che sia di tua proprietà o in affitto, sarai il solo a guardarti in quel modo.
Sistema i capelli come ti pare, tatuati se necessario, dimentica di pagare la bolletta entro quella data, incazzati e accetta con sportività la sconfitta della tua squadra preferita; chiama i tuoi amici, temporanei, perché l’amicizia del “per sempre” non esiste, la vita non è eterna; chiama la tua famiglia e rompi quei silenzi dicendo la tua, fregandotene delle conseguenze; chiama la persona che ami, anche quella non sarà per sempre, perché prima o poi la vita, si prenderà gioco di voi e ricordale perché provi stima.
Infine, chiama all’appello te stesso ed anziché chiederti “quanto” tu abbia costruito finora, chiedi quanto tu abbia diritto di essere felice… ma la vita, caro lettore, non ti deve nulla e forse, quello che pensi non sia felicità, è il massimo che potrai avere.
Perciò viviamo, arranchiamoci se necessario, ma viviamo, perché la felicità che vogliamo, volenti o nolenti, non esisterà mai… almeno al nostro specchio.
Social Media Strategist, cosentino classe 1991, fluente in 3 lingue.
Laureato in Giurisprudenza per caso, in Marketing e Comunicazione per scelta, ha vissuto a Roma, Milano, Alicante, Boston, Londra… Ma per lui nessun posto è come “casa”.
Eletto vincitore della Hult Business Challenge da una giuria di Google per il suo progetto sui matrimoni calabresi intitolato “WEDDIE”.
Appassionato di viaggi low cost, serie TV e Instagram!