"Come possiamo generare gentilezza, se non siamo, in primo luogo, gentili con noi stessi, prima ancora che con gli altri?"

La sveglia suona al solito orario. Il suo trillo lieve sembra dare il via a una giornata come tutte le altre. Abbandono con mollezza le coperte che hanno coccolato i miei sogni e mi srotolo a rallenty dal groviglio di lenzuola di flanella pelucchiosa in cui mi sono rifugiata, come un baco da seta, prima della sua rinascita (a fine aprile, tra l’altro… ndr.).

Sguscio fuori dal letto con la gamba sinistra. Cerco ad occhi chiusi una ciabatta. Non la trovo. “Sarà finita sotto al letto” penso. “Uff… Mi scoccia cercarla”.

Decido pigramente di camminare a piedi scalzi. Mi incammino, muovendomi come un bradipo sedato, verso la cucina.

Inforco il corridoio corto, percorro il corridoio più lungo. Porta. Caffettiera finalmente di fronte a me. Inizio ad aprire l’altro occhio e, nel frattempo, continuo a muovermi come un ippopotamo in slow motion. Accade.

Come uno schiaffo a mani nude sul viso ghiacciato, sento un rumore sordo e scricchiolante, a cui segue un dolore intenso, che parte dall’estremità del piede: sembra quasi che qualcuno, in lontananza, canticchi una melodia rock il cui inciso più violento suona con “sboumcrick”.

… Ebbene sì: il mio mignolino nudo ha sbattuto contro lo spigolo della porta d’ingresso della cucina.

In un microsecondo, i neuroni si attivano, ed un dolore sordo arriva impietoso a tracimare tutti i sensi.

Immancabile arriva lei: una serie infinita di improperi: 

Ma quanto sei cretina! Potevi mettere le ciabatte, non era un grande sforzo! Sei sempre la solita pigra indolente! Cosa ti costava abbassarti per prenderle sotto al letto? Adesso ti arrangi: ti tieni il dolore e pure in silenzio”.

Tutta la cucina sembra ricoperta di spilli, qualsiasi superficie sfiori la mia pelle mi infastidisce, e comincio a saltellare urlando sottovoce per non svegliare il resto della famiglia, mentre urto con il gomito allo spigolo del tavolo, dando nuovamente il “la” ad ulteriori maledizioni rivolte alla mia inettitudine mattutina… 

Mentre il tornado impietoso di insulti prende il sopravvento su quel poco di ragionevolezza che mi rimane nel cervello (che poverino, invece, voleva solamente svegliarsi con lentezza), gli occhi si poggiano su una piccola borsa di stoffa poggiata su una sedia.

Quella sacca minuta, regalatami da una carissima amica al ritorno del suo viaggio in Brasile, ha in bella vista una frase semplice, immediata, raggelante per l’enormità del suo senso… Questa frase invade brutalmente il mio campo visivo, nonostante il dolore, i saltelli e le parolacce che ballano tarantolando nella mia testa.

GENTILEZA GERA GENTILEZA” (la gentilezza genera gentilezza ndr.).

I miei pensieri disvalorizzanti rallentano improvvisamente al casello di uscita dalle cattive abitudini, e si preparano a pagare il pedaggio ad un prezzo costoso, come un viaggio in macchina a benzina da Trapani a Treviso.

Mi scappa da pensare: ed un’onda bollente di domande invade la mia mente, con la stessa forza della calma che anestetizza i dolori sparsi tra mignolino destro e gomito sinistro…

Perché abbiamo la tendenza ad autoinfliggerci parole dure e spietate, quando facciamo degli errori consapevoli, seppur piccoli?  

Perché quando le (quasi sempre altissime) aspettative che riponiamo in noi stessi non vengono (umanamente) soddisfatte e inciampiamo in piccole, a volte piccolissime défaillance, non mostriamo alcuna pietà nei confronti di noi stessi?

Come possiamo generare gentilezza, se non siamo, in primo luogo, gentili con noi stessi, prima ancora che con gli altri?

Come possiamo pretendere gentilezza dal mondo, se la gentilezza non parte da noi stessi e per noi stessi?

Mentre il dolore al mignolino si allevia (ma non passa), ed il formicolio al gomito si alleggerisce (lasciandolo velatamente insensibile), ma, soprattutto, mentre blocco con forza l’erosione della mia autostima, prodotta da quella tempesta di comunicazione sgarbata verso me stessa, mi accorgo improvvisamente che i miei pensieri cambiano forma, colore, consistenza, per effetto della frenata alla violenza che sto usando per far comunicare i miei pensieri. 

Ciò che ho intorno diventa più morbido, il dolore più tenue ed anche la realtà che mi circonda sembra avere meno spigoli…

… Ma se la gentilezza genera gentilezza, dunque, noi siamo anche quello che diciamo?

Probabilmente sì. E probabilmente il modo di comunicare con noi stessi riflette specularmente l’approccio che abbiamo nella comunicazione con il mondo.

Più siamo spietati e violenti nel comunicare con noi stessi, maggiormente siamo spietati e violenti nel giudicare il tutto come bianco o nero, senza considerare sfumature o eventuali variabili.

Quindi, se provassimo a correggere il tiro, parlando con dolcezza a noi stessi, e gettando un sasso nello stagno della gentilezza, potremmo porre le basi per far sì che possano essere più facilmente accolte visioni differenti dalle nostre, solo imparando ad accettarci per quello che siamo, ovvero fallaci ed umanamente perfettibili, più che rigidamente immobili e tendenti alla perfezione?

In altre parole: attraverso la presa in cura individuale della pratica gentile verso noi stessi, potremo creare un’onda energetica di carezze emotive (alla dragonballmaniera) da lanciare più facilmente nella direzione degli altri?

Forse sì.

Guardo di nuovo la borsa… GENTILEZZA GENERA GENTILEZZA... La frase permea ancor di più le mie sinapsi. Il pavimento sembra ancor più morbido, tiepido e prende in cura i doloretti delle mie ferite multiple.

Da dove bisogna partire, dunque, per scacciar via la pioggia di improperi per non aver messo le ciabatte? 

Forse iniziando a mettere un piccolo freno agli automatismi della comunicazione violenta, che, a volte, assassinano brutalmente l’autostima di ognuno di noi con i proiettili del disvalore a cui siamo abituati.

Forse iniziando a generare gentilezza intimamente.

Forse seminando cortesia nel nostro personale orticello.

Forse isolando l’utilizzo di un linguaggio sgarbato, violento, doloroso.

E forse abituandoci a dire, ogni tanto, “Sei stat* molto brav*“.

Queste riflessioni esplodono alquanto ingarbugliate, e si annodano ulteriormente con l’orario crudele (6.45 del mattino) e con il riverbero del dolore al mignolino, ed al gomito.

Ma voglio continuare a pensare che la gentilezza generi gentilezza… E che questa giornata mi riserverà bellezza, se mi impegnerò a completare una narrazione in cui sono cosciente che merito amore e rispetto, anche se faccio qualche piccolo errore.

Ed in funzione di questa gentilezza diffusa, che parte da un amore riscoperto verso me stessa, ho deciso che sarò diffusamente gentile anche con voi, che avete letto fin qui… perché comprendo che, dopo questa sfilza infinita di masturbazioni mentali da mignolini doloranti, ideali generatori di azioni migliorative, gomiti e gomitoli intricati di ragionamenti, risulto credibile come l’Everest in bilico su uno stuzzicadenti.

Perciò chiuderò qui. Ma lo farò con la consapevolezza che il sonno della ragione della gentilezza ha generato molti mostri… lo farò con la consapevolezza che voglio svegliarmi per scendere velocemente dal letto della violenza verbale per andare a preparare con cura il caffè della rinascita.

Ma, stavolta, lo farò con le ciabatte ai piedi.

Promesso.

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