Siamo nati per perdere o per tenere?
Questa la mia domanda del momento, in un mese troppo breve, in cui la vita ha scelto, anno dopo anno, di togliermi qualcosa di molto importante per poi donarmi qualcos’altro di altrettanto fondamentale.
È tutto in bilico, teso nella scelta che abbiamo di ricordare ciò che perdiamo e arrivare realizzare che è meglio ricordare ciò che oggi, fisicamente, abbiamo nelle mani.
Questo è ciò che veramente conta: auto-munirci della consapevolezza che un ricordo non è altro che la perenne presenza di qualcosa che sembra persa per sempre ma invece vive nella nostra memoria.
Mi perdoneranno le persone che ho perso, ma ho voglia di guardare ciò che ho tra le mani, perché questo 13 febbraio a me, ha cambiato la vita.
Non so chi di voi abbia mai visto la propria vita cambiare, ma nella mia, ad ogni cambiamento, ho aggiunto qualcosa.
Quattro le volte in cui è cambiata;
quattro come il giorno in cui sono nato;
quattro come le chiome da pettinare;
quattro come gli abbracci da condividere.
Per ben quattro volte, ho visto la pancia delle mie sorelle lievitare come pasta di pizza e dare qualcosa alla mia vita ad una velocità tale che ancora oggi mi spinge a chiedermi: “ma prima, la vita, com’era?”.
Sono state fortunate, anzi, siamo stati tutti fortunati e in questa fortuna, ancor prima dell’incontro vero e proprio, l’attesa, ti strazia.
La gioia si moltiplica giorno dopo giorno e il sapore di attesa si mischia a impazienza e speranza che tutto vada bene.
È strano… Si passa da una gioia inattesa ad un’ansia costante, perché ogni movimento può essere troppo brusco o anche fatale.
Conosciamo tutti la sensazione di ricevere una bella notizia, una di quelle che ti aspettavi, ma che non sapevi quando sarebbe arrivata.
Ecco cosa si prova, un insieme di “e adesso?” con delle sfumature di “diventerò zio”.
La prima volta, mio cognato è entrato con uno spumante autocelebrandosi quale papà dell’anno;
la seconda volta, il giorno del mio 18 anni, mi è stato chiesto di leggere un valore di alcune analisi del sangue, ma senza capirci poi nulla;
la terza e la quarta, ricordo di aver semplicemente gioito profondamente, perché di quella sensazione, poi, non se ne riesce a fare a meno.
Quando diventi zio e prendi tra le braccia un bambino che rimarrà con te per un bel tratto della tua vita, automaticamente, cambi.
Le tue responsabilità diventano diverse, la tua voglia di essere il preferito ti pervade e ti auguri il meglio, o almeno solo cose belle.
Si diventa, in qualche modo, genitori.
Io sono genitore di quattro bambine, ormai alcune ragazze, che sono per me figlie.
“Ah, ma l’amore di un genitore è diverso!”
“Ah, ma l’amore di una madre è il più forte”
“Ah, ma non puoi saperlo, non hai figli”.
Beh, mentre la mia natura biologica non mi permette di essere genitore, il mio cuore, il mio diritto di essere felice e soprattutto, in questo caso, le mie amate sorelle, mi hanno permesso e mi permettono quotidianamente, di esserlo.
Ma essere genitore, è un impegno.
Eh si, nel mio piccolo, a 600 km di distanza da due nipoti ed a soli 300 metri dalle altre, mi sento profondamente responsabile e fondamentale per la loro vita.
Vi sfido a ricordare la vita prima dell’incontro con un bambino, che abbia o meno un legame di sangue con voi.
Vi sfido a non guardare qualcosa o qualcuno per strada e dire “ooooh, quello a Francesco starebbe benissimo”.
Vi sfido a non avere paura o a non preoccuparvi per il loro primo giorno di scuola.
Vi sfido a non girare la faccia dall’altra parte per il timore che possano affogarsi.
Vi sfido a non cambiare minimamente voce quando interagite con loro.
Vi sfido a non dire “i bambini li odio” e poi rendervi conto di sbagliare.
Prima o poi, questo momento, arriva.
In qualche modo, diverso da quello più “convenzionale”, genitori lo si diventa, perché se ci si innamora di un essere vivente e automaticamente ti senti responsabile.
Io vorrei essere genitore un giorno e mentre sogno una legge che mi permetta di non rischiare di essere un genitore unilaterale, senza preoccupazioni in termini di moralità e diritto, mi auguro di poter essere responsabile di piccole creature, che hanno da darci solo meraviglia e bellezza.
Mi rivolgo, infine, a chi sceglie di non avere figli propri ed a chi non ha potuto averne.
Voi siete genitori.
Siete responsabili per tutti noi altri, con tutti noi altri e ci insegnate che l’amore, in ogni sua forma, non ha convenzione o certezza, ma esclusiva gratuità.
Dal canto mio, spero di far diventare te, caro lettore, un genitore, perché qualsiasi sia la tua smorfia sul viso alla fine di queste mie parole, è figlio di un’emozione di cui devi essere responsabile.
Social Media Strategist, cosentino classe 1991, fluente in 3 lingue.
Laureato in Giurisprudenza per caso, in Marketing e Comunicazione per scelta, ha vissuto a Roma, Milano, Alicante, Boston, Londra… Ma per lui nessun posto è come “casa”.
Eletto vincitore della Hult Business Challenge da una giuria di Google per il suo progetto sui matrimoni calabresi intitolato “WEDDIE”.
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