"Un documentario che, fin dall’inizio, ti fa sedere sull’altalena del giudizio, senza che tu possa far nulla per impedirglielo."

Non è semplice affrontare un titano visceralmente bellico, ma anche storicamente narrativo; tecnico, ma anche emotivo, come la docuserie SanPa.

Ci ho impiegato moltissimo tempo, e, dopo l’entusiasmo iniziale in cui mi sono immersa, mi sono persa tra le migliaia di confluenze e connessioni a cui la visione delle 5 puntate di SanPa mi ha portato. Razionalizzare e sintetizzare i punti focali, dopo aver letteralmente fagocitato questa docuserie in uno spietato binge-watching, è stata un’azione decisamente articolata, e, a volte, persino dolorosa. 

Sì, ho visto SanPa tutto d’un fiato. E non mi è pesato. Eppure circa cinque ore di documentario sono tante.

Questa serie è riuscita a colpirmi, a ferirmi, a commuovermi, a indignarmi, a indispettirmi… ma mi ha fatto anche pensare, senza mai attraversarmi del tutto.

Ho sentito chiaramente, nel mio personalissimo fervore emotivo, la precarietà e l’instabilità che si provano su un’altalena. Un’altalena, quella di SanPa, che definirei del giudizio.

In tanti ne hanno già parlato, ne stanno parlando e, sicuramente, ne continueranno a parlare, soprattutto per la ri-stimolazione che produce SanPa rispetto al dibattito su temi vetrosi e (sopratutto) esistenziali come: Qual è il confine dell’autorità? Chi decide chi e cosa abbia un carattere autorevole? Qual è la definizione di autorevolezza? Qual è il confine della libertà? Fino a che punto si può arrivare per fare del bene? Il fine giustifica i mezzi?

SanPa centra con un solo strike tutte queste tematiche in un modo che è, al tempo stesso, pesante e delicato, sviluppando tutto il focus narrativo di superficie intorno alla narrazione dell’Acclamato Eroe/Umano Antieroe, Vincenzo Muccioli, e sulla storia della comunità di San Patrignano nella sua interezza.

Una robetta leggera, insomma.

Un documentario che, fin dall’inizio, ti fa sedere sull’altalena del giudizio, senza che tu possa far nulla per impedirglielo.

Il paravento della narrazione oggettiva, su cui sembra basarsi lo stampo classico in cui si muove il racconto, infatti, è composto da migliaia di immagini di repertorio alternate a testimonianze e racconti di superstiti e miracolati della comunità.

Sì, avete letto bene: superstiti e miracolati, come ben sintetizza Fabio Cantelli (ex ospite della comunità ed ex responsabile della comunicazione di San Patrignano ndr.) in una lapidaria dichiarazione:

“Quello che io sono, lo sono anche grazie a Vincenzo e anche grazie a SanPatrignano. Anche se mi tocca riconoscere, nonostante Vincenzo e nonostante San Patrignano” . 

Tutti gli intervistati, infatti, (a parte Red Ronnie), sembrano rinforzare ancor di più la metafora dell’altalena, in quanto portano lo spettatore, con le loro testimonianze, a volte taglienti, a sentire sulla pelle la pressione della spinta, l’ebbrezza dell’altezza, la destabilizzazione della paura e la polvere della caduta.

SanPa, tra l’altro, è un colosso narrativo disseminato di quesiti, e regala a chiunque decida di sedersi sul sellino della famosa altalena del giudizio, un certo numero di domande su cui regista e montatori, probabilmente, hanno lucidamente e consapevolmente posto l’obiettivo del sotto-testo narrativo.

Una delle analisi più acute ed importanti sul sotto-testo della docuserie/altalena è contenuta in un intervento di Franco Taverna (Coordinatore generale dell’area povertà educativa della Fondazione Exodus di don Mazzi ) che in una sua intervista per la rivista “Vita” afferma: 

“…Venendo perciò al cuore della questione e cercando di dare una risposta alla domanda su quale sia il limite nell’esercizio del potere, mettiamo pure terapeutico, educativo, religioso, politico… sempre a fin di bene (ma non c’è nessuno che dica di esercitarlo a fin di male!) credo che il punto sia di valutare quale sia il metro con il quale si misura tanto l’autorità (“da dove viene la tua autorità?”) quanto il bene, chi stabilisce che cosa sia il bene. Ora io credo che una persona travalichi il limite consentito quando pone se stesso come misura, quando pensa che l’autorità che esercita se la conferisca da sé e che sia lui stesso a possedere e stabilire che cosa sia bene. Parafrasando Pirandello; così è se “mi” pare.”

Come Taverna, anch’io reputo che l’autoreferenzialità insita nel “così è, se MI pare”, possa essere il nodo centrale attraverso cui rallentare il moto di questa altalena di pensieri. È come se, nella narrazione intrinseca, che giace sul fondo di SanPa, ci venga raccontato come e quanto Muccioli si sia volutamente spinto oltre al confine dell’equilibrio.

Come se, il controverso Muccioli, una volta persa la spinta sociale, che lo aveva mosso all’inizio, avesse caricato il suo possente corpo di ammaliatore di masse su un’altalena.

Infatti, sembra quasi che Muccioli, dopo aver goduto del formicolio dei muscoli delle gambe, utilizzate con sforzo per guadagnare altezza, e, dopo aver assaporato l’ebbrezza regalata dalla forza di qualcuno che ti spinge dalle spalle per volare più in alto, improvvisamente, abbia deciso di mettersi in piedi sul sellino perché convinto di poter riuscire a far fare il giro completo alle catene (non a caso) dell’altalena. Senza, però, riuscirci.

Probabilmente è proprio questa propensione arrogante ad andare oltre ad aver provocato la sua perdita di equilibrio, e la sua conseguente, rovinosa caduta.

Più si procede nella visione, più, tra i vari retrogusti che SanPa lascia in bocca, emerge il sapore acido di un aspetto alquanto inquietante: come e in che misura la relazione ed il dialogo individuale degli abitanti di San Patrignano con il Patron Muccioli possono essere associati al concetto di dipendenza?

Mentre si sgrana il rosario di SanPa, e mentre le testimonianze colano fuori dalla narrazione, sembra quasi che gli ospiti subiscano un mutamento di dipendenza.

Dall’assuefazione data dall’eroina passano alla dipendenza dal Guru Salvatore/Padre padrone.

Quali sono, dunque, i limiti da imporre o da autoimporsi, quando il talento nella manipolazione (i cui scopi possono essere diabolici o angelici) diventa metodo di correzione?

Queste sono domande aperte e dondolanti che non vengono mai esposte esplicitamente durante la narrazione, ma che si colgono tra le sue righe.

Sanpa, dunque, oltre all’impatto epidermico della carezza e al di là della forzatura del giudizio, pone una riflessione importante sul concetto di limite e di assuefazione emotiva, senza dimenticare di accendere un faro sulla storia italiana.

Storia, la nostra, che si è dimostrata spesso incapace di affrontare pandemie di ogni genere (che siano provocate dall’avvento della piaga dell’eroina o dal diffondersi di un virus letale) e che, soprattutto, non è in grado di interrogarsi in tutta onestà sui perché di certi fenomeni e avvenimenti. 

SanPa, dunque, è un mondo estremo e delicato: uno spazio aperto e claustrofobico, morbido e complesso, a cui approcciarsi con la consapevolezza di sedersi a guardare l’incerto e il disequilibrio… lasciandosi andare al pensiero, consapevoli che si dondolerà ora più velocemente ora più lentamente, verso un limite e incontro a migliaia di domande a cui si cercherà di dare risposta.

Quindi, cos’è stato SanPa?

SanPa è stato un’altalena, ma anche una catena… la questione di fondo è, quindi, se tu, spettatore, sia davvero pronto a salirci sopra, spingerti e pensare – con il rischio di farti anche male.

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