Salute riproduttiva della donna: contraccezione, contraccezione d’emergenza e interruzione di gravidanza – di cosa parliamo?

"La salute riproduttiva della donna è un tema quanto mai caldo, tuttavia sovente gravato da una scarsa conoscenza riguardo sia gli aspetti medico-biologici, che quelli normativi."

La recente sentenza della Corte Suprema americana (Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization, 24 giugno 2022) ha sancito che l’interruzione di gravidanza non è un diritto costituzionalmente garantito, rimettendo ai singoli stati la possibilità di legiferare autonomamente; questa (anti-)storica decisione ci ricorda, una volta di più, come anche quei diritti apparentemente acquisiti possano essere rimessi in discussione. Con l’avanzare di movimenti e partiti di stampo conservatore anche in Italia, esiste il pericolo che si metta in discussione l’attuale normativa nel nostro Paese? In una prospettiva più ampia, corriamo il rischio di ritrovarci in un mondo in cui si provi a ridefinire la maternità, inquadrandola come principale funzione sociale della donna?

La salute riproduttiva della donna, troppo a lungo ignorata e ancora oggi non sufficientemente considerata, è un tema centrale da un punto di vista medico, e rischia di ridiventare terreno di contesa politica (più o meno palese) nel prossimo futuro. L’OMS definisce la salute riproduttiva come lo “stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale […] in tutto ciò che attiene il sistema riproduttivo, le sue funzioni ed i suoi meccanismi”, andando quindi ad includere che “le persone siano in grado di avere una vita sessuale soddisfacente e sicura, e abbiano la possibilità di riprodursi e la libertà di decidere se e quando farlo”. La salute riproduttiva non si esaurisce, quindi, nella mera capacità di riprodursi; è, inoltre, ampiamente dimostrato lo stretto legame tra salute riproduttiva e mentale, includendo la possibilità di scegliere e programmare se e quando intraprendere una gravidanza tra i fattori determinanti.

Un livello soddisfacente di salute riproduttiva non è semplicemente espressione di ciò che la Legge consente; la conoscenza e la consapevolezza riguardo ai principali aspetti medici e normativi, il contesto sociale, l’orientamento dell’opinione pubblica, l’accettazione o lo stigma nei confronti di specifiche scelte, la concreta accessibilità dei servizi giocano un ruolo cardine nella definizione di quel perimetro di libertà entro cui la donna può muoversi per perseguire la propria salute. Per un’ecologia del pensiero, val la pena di fare chiarezza su alcuni punti fondamentali, al fine di approcciare il dibattito in maniera più consapevole.

La pianificazione libera e consapevole della genitorialità è parte integrante del concetto di salute riproduttiva, e rappresenta un requisito fondamentale per la piena affermazione di sé e la realizzazione personale. È opportuno, quindi, che venga portata avanti un’educazione adeguata sul tema della contraccezione. Questa può essere definita, in senso lato, come qualsiasi provvedimento atto ad impedire l’instaurarsi di una gravidanza. In nessun caso, comunque, i contraccettivi esercitano un’azione abortiva (vale a dire: i contraccettivi non possono arrestare una gravidanza, dopo che questa sia iniziata); sebbene alcuni farmaci contraccettivi possano essere impiegati anche per finalità abortive, ma con dosaggi differenti.

I metodi contraccettivi possono essere definiti come permanenti o non permanenti. Fanno parte della prima categoria le tecniche di sterilizzazione femminile (legatura delle tube di Falloppio – efficacia immediata, tasso di fallimento dello 0.5%) e maschile (vasectomia – piena efficacia in 12 settimane, tasso di fallimento dello 0.15%). I metodi non permanenti richiedono di essere reiterati nel tempo e possono schematicamente essere divisi in 4 gruppi:

  • Metodi naturali: il più famoso (e meno efficace) è il coito interrotto, consistente nell’evitare che l’eiaculato entri in vagina – anche quando eseguito con un tempismo corretto, la sua efficacia è bassa. Altri metodi naturali si basano sull’individuazione teorica dei giorni di maggior fertilità della donna, in cui evitare i rapporti; possono essere usati, al contrario, nel caso in cui si stia ricercando una gravidanza, per individuare i giorni in cui il concepimento risulti più probabile. Tassi di fallimento molto variabili, tra il 2 e il 23% (risentono molto dell’esperienza di chi li utilizza);
  • Metodi di barriera: probabilmente i più noti, sono essenzialmente il preservativo maschile, quello femminile e il diaframma. Importante ricordare che il preservativo maschile è l’unico mezzo contraccettivo che previene anche le malattie sessualmente trasmissibili. Tassi di fallimento tra il 13 e il 21%;
  • Dispositivi intrauterini (IUD, Intra-Uterine Device): sono dei dispositivi, su per giù a forma di T, che vengono impianti nell’utero dal medico. Possono essere rivestiti di rame (Cu-IUD, che può rimanere in posizione fino a 10 anni), oppure medicati con ormoni progestinici (LNG-IUD, che può rimanere 3-6 anni). Tassi di fallimento inferiori all’1%;
  • Contraccettivi ormonali: possono essere a base di soli progestinici, oppure di una combinazione di estrogeni e progestinici, che bloccano l’ovulazione. Vi sono diverse formulazioni, di cui la più nota è quella orale (la cosiddetta ‘pillola’), ma esistono anche in forma di cerotto, anello vaginale, e impianto sottocutaneo. I preparati estroprogestinici sono in genere meglio tollerati, ma sono controindicati in caso di aumentata suscettibilità alla formazione di trombi (“grumi” di sangue che coagula impropriamente, andando ad occludere un vaso sanguigno e bloccando quindi il flusso di sangue) – è, quindi, cura del medico prescrivente l’individuazione del preparato più adatto. I contraccettivi ormonali hanno inoltre un effetto chemioprotettivo (cioè, riducono il rischio di cancro) nei confronti dei tumori di utero e ovaie, mentre possono associarsi ad un aumentato rischio di tumore mammario. Tassi di fallimento dal 3 al 7%, tranne che per l’impianto sottocutaneo, per cui si attestano intorno allo 0.1%.

Ricade in una categoria differente la contraccezione d’emergenza, che si basa su presidi da utilizzare qualora i normali mezzi di contraccezione non siano stati adoperati o abbiano malfunzionato (ad esempio, nel caso di rottura del preservativo). Può essere utilizzato il Cu-IUD (lo stesso dispositivo intrauterino, posizionato dal medico, usato anche nella contraccezione regolare), che può essere posizionato fino a 5 giorni dopo il rapporto ed è il metodo in assoluto più efficace (efficacia maggiore del 99%). Più nota è la cosiddetta “pillola del giorno dopo”: ne esistono due tipologie, una può essere assunto fino a 3 giorni dopo il rapporto (nome commerciale Norlevo®), ed un’altra fino a 5 giorni dopo (nome commerciale EllaOne®); l’efficacia è massima, per entrambe, se assunte entro 24 ore (oltre il 95%), scende all’85% a 48 ore e cala poi progressivamente.

Sono farmaci sicuri, che non richiedono prescrizione medica (neanche per minorenni, nel caso di EllaOne®). L’assunzione ripetuta non è associata ad un aumentato rischio di eventi avversi severi o ad una ridotta efficacia; tuttavia, è consigliabile non assumere EllaOne® 2 volte nel corso dello stesso ciclo mestruale. Le ragioni fondamentali per cui se ne sconsiglia l’utilizzo routinario sono due: gli effetti collaterali, seppur lievi (i più frequenti sono nausea, sanguinamenti non mestruali e cicli mestruali irregolari), possono essere fastidiosi, e la loro efficacia è complessivamente minore rispetto ai contraccettivi ordinari.

Nel caso in cui si verifichi una gravidanza indesiderata, esistono procedure atte ad interromperla, se questo è il desiderio della donna: si parla, in questo caso, di interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Si possono distinguere IVG mediche (o farmacologiche) e chirurgiche:

  • L’IVG medica, che si basa sull’uso sequenziale di due farmaci: un anti-progestinico – che rende le pareti uterine meno adatte ad ospitare l’embrione – seguito, a 36-48 ore di distanza, da prostaglandine – che stimolano le contrazioni dell’utero per favorire l’espulsione del materiale del concepimento. L’attuale normativa italiana prevede che l’interruzione medica possa essere praticata entro la nona settimana; non è più necessario il ricovero ospedaliero, ma può essere eseguita in regime ambulatoriale in strutture specializzate;
  • L’IVG chirurgica, che consta di due tecniche: l’isterosuzione e il raschiamento. Nel primo caso, tramite una cannula inserita nell’utero, si va ad aspirare il materiale del concepimento. Può essere utilizzata, da sola, fino alla sesta settimana; invece, nelle gravidanze più avanzate, viene combinata con il raschiamento – tecnica più invasiva in cui si va a rimuovere meccanicamente l’embrione dalle pareti dell’utero – ad oggi, raramente utilizzata da solo.

In entrambi i casi, si tratta di procedure altamente efficaci e sicure – seppure, trattandosi di interventi medici, non a rischio 0; per avere un’idea grossolana del rischio, il Center for Disease Control (CDC) americano ha stimato che i tassi di mortalità delle IVG siano inferiori rispetto a quelli della gravidanza stessa, appunto a sottolineare come si tratti di procedure sicure. I principali effetti indesiderati comprendono mal di testa, spossatezza, dolori pelvici e sanguinamenti/irregolarità mestruali per i preparati ormonali, dolori pelvici, infezioni e cicli mestruali più lunghi e abbondanti per lo IUD.

Sono procedure ripetibili, senza che vi siano particolari rischi associati alla loro reiterazione: ampi studi di popolazione hanno dimostrato che, solo nel caso di multipli raschiamenti, si ha un minimo aumento del rischio di complicanze nelle gravidanze successive: i ripetuti traumatismi a carico delle pareti dell’utero possono portare alla formazione di tessuto cicatriziale in eccesso nelle pareti uterine, rendendole meno adatte ad ospitare una futura gravidanza.

Da un punto di vista normativo, l’ordinamento italiano (con la legge n. 194 del 1978) prevede la possibilità di ricorrere all’IVG entro il 90° giorno di gravidanza; nello specifico, la legge si rivolge alla donna “che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Dopo il primo trimestre, l’IVG è concessa solo in casi particolari, nello specifico: “a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

Rimanendo nell’ambito della procedura ordinaria, questa deve essere richiesta dalla donna ad una struttura abilitata o ad un medico di fiducia. Il medico interpellato ha quindi il compito di accertare lo stato di gravidanza, raccogliere dati clinici rilevanti in merito alla gravidanza e alla sua eventuale interruzione, e discutere con la donna (e con il padre, qualora lei lo desideri) circa le motivazioni della scelta. Solo dopo 7 giorni, questa può presentarsi presso una sede autorizzata ed eseguire la IVG; ma nel caso il medico riscontri l’urgenza di eseguire l’IVG, questi può rilasciare un certificato con cui la donna può richiedere immediatamente la procedura.

La legge 194 prevede anche la possibilità, per i medici e il personale ausiliario, di non prendere parte alle procedure di IVG, qualora sollevino obiezione di coscienza. Secondo il report del Ministero della Salute sulle IVG, si stima che, al 2020, il 64.6% dei ginecologi in Italia sia obiettore di coscienza. Su 560 strutture con reparti ostetricia o ginecologica, solo 357 (poco meno di un terzo) effettuano l’IVG; inoltre, 15 regioni italiane su 20 hanno da 1 a 3 strutture che effettuano IVG per ogni 100.000 donne in età fertile. Non è infrequente, infatti, sentire la notizia di strutture sanitarie che si ritrovano nella (quasi) impossibilità di garantire il servizio di IVG per le donne che ne fanno richiesta, a causa della mancanza di medici non obiettori. Resta quindi il paradosso di una legge che, teoricamente, si propone di promuovere la tutela della salute della donna a 360 gradi, ma si riserva, nel pratico, di rendere difficoltosa la fruizione di un diritto-servizio, rischiando così di aggiungere ulteriore disagio al carico emotivo che un’IVG può, già di suo, portare.

La salute riproduttiva della donna è un tema quanto mai caldo, tuttavia sovente gravato da una scarsa conoscenza riguardo sia gli aspetti medico-biologici, che quelli normativi. Intorno al concepimento e alla vita umana, diverse sensibilità vengono facilmente a scontro, spesso e volentieri sorde di fronte alle necessità e alle richieste delle dirette interessate; questi temi vengono frequentemente adoperati come “grimaldelli elettorali”, da parte di una classe politica che, incapace di trovare risposte concrete ed efficaci per fronteggiare reali necessità, si affida a divieti ed impedimenti, nel tentativo di mettere ordine in una società che altrimenti non riuscirebbe a comprendere. E, laddove non arriva il divieto, la negligenza nell’informare e la demonizzazione di alcune procedure mediche (come la contraccezione d’emergenza ed interruzione di gravidanza, spesso descritte come oltremodo pericolose o dannose per la donna, senza reali motivi medici) si inseriscono sulla medesima linea, ovvero di un tentativo di restringimento dei diritti. Ad essere disatteso è, innanzitutto, il diritto ad una scelta consapevole e libera da parte di ogni donna: un cambio di passo, e di paradigma, è necessario per fronteggiare le sfide future, e bisogna ripartire da una corretta informazione.

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