L’inchiostro della storia è scarlatto e scorre dentro gli esseri umani: la storia si scrive con il sangue. Da sempre. La violenza esplosiva, sanguinaria, cieca, scandisce il passaggio da una fase storica all’altra. “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova”, scriveva Karl Marx. Può essere difficile riconoscerlo, questa ammissione può risultare ripugnante; ma il pavido rifugio in una rilettura edulcorata della storia, per quanto possa aiutare a vivere sereni, ci terrà per sempre inermi.
Di violenza si sono nutriti i peggiori orrori che l’umanità abbia visto, così come le sue più grandi conquiste. Quante di queste conquiste, a tutti oggi così care – basti pensare, per citarne una su tutte, alle “liberté, égalité, fraternité” della Rivoluzione francese – sono figlie di atti di estrema violenza?
Fa sorridere, ma anche arrabbiare, che la violenza di un po’ di vernice lanciata a imbrattare dipinti e monumenti susciti tanta indignazione. Perché di violenza si tratta, seppur non diretta contro altri uomini; inutile chiamarla altrimenti: rischieremmo di fraintenderla e sottovalutarne tanto le origini, quanto gli intenti. Ma ormai ci siamo evoluti – questo ci raccontiamo – e non abbiamo più bisogno degli atti di violenza: “non è roba da persone civili”. È il peccato del cittadino occidentale: credere di vivere nella post-storia, dove la violenza e finanche il disturbo non debbano trovare più posto.
È endemica, seppure innestata a un livello solo pre-cosciente, la convinzione di aver trasceso quelli che erano le caratteristiche della specie umana fino a pochi decenni fa: l’idea di esserci trasformati in una sorta di entità superiore, semi-divina, capace di stare al mondo in forme nuove, completamente sconosciute ai nostri antenati di appena 60-70 anni fa e a uomini e donne che popolano altre regioni del pianeta. Come se la sporadicità delle manifestazioni di violenza conclamata nelle nostre società occidentali implicasse, di necessità logica, che la violenza sia sparita in ogni sua forma. Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi: la violenza manifesta, quella più esplosiva ed evidente della protesta, scaturisce da una violenza cronica, fatta di reiterati atti di prevaricazione?
“Ma non è questo il modo di battersi per una causa, anche fosse giusta”. In frasi di questo genere, è difficile capire dove finisca l’ipocrisia e inizino l’ingenuità e il delirio (nel senso letterale del termine di “convinzione non criticabile indipendente dalla realtà”). Quasi come se l’etica si fosse rovesciata, e la misura morale dell’azione fosse funzione inversamente proporzionale al disturbo arrecato agli altri. Se è certo un crinale pericoloso, quello del fine che giustifica i mezzi sempre e comunque, non è consigliabile vivere nella paradossale spirale della sua nemesi, in cui i mezzi qualificano il fine.
Che la violenza sia sempre sbagliata, che la violenza tracci un confine netto e definitivo tra il giusto e l’ingiusto, è una certezza della nostra società; una società convinta di vivere in un eterno presente, e che guarda al passato come a un racconto mitico vissuto da specie aliene. L’orrore di fronte alla violenza, orrore che precede e preclude ogni ulteriore elaborazione del pensiero, ha sterilizzato il nostro senso della giustizia, rimpiazzandolo con un senso dell’ordine. Ciò che è fuori posto, lesionato, deturpato ci risulta disturbante; e l’unico mezzo di ‘copying’ di cui disponiamo è la rimozione: se possibile materiale (evitare che quel qualcosa si verifichi), in subordine percettiva (evitare di vederlo/ascoltarlo/esperirlo), da ultimo psicologica (evitare di pensarci).
Nella protesta, la violenza assolve a un ruolo almeno duplice: può rimuovere direttamente la causa della protesta, oppure può fungere da cassa di risonanza tramite un’azione iconoclasta. In quest’ultima fattispecie ricadono certamente le proteste ambientaliste: dirette contro le opere d’arte, simboli di una cultura innamorata dell’estetica inscritta in oggetti e luoghi isolati, ma incurante di fronte alla devastazione diffusa, purché relegata a uno spazio lontano, appunto “rimosso”, che non costringa a confrontarsi con quel sentimento di “disturbante” che risulta intollerabile.
Ciò che è disturbante all’esperienza dovrebbe invece spronare alla riflessione sulle sue cause immediate e remote: “cosa ha spinto quelle persone ad agire in questo modo?”. Dovrebbe costringere a guardare nel baratro della complessità del reale, permeata di dissidi e contraddizioni intrapersonali e interpersonali, in cui non c’è un’unica risposta, men che meno un’unica risposta esatta. Quel locus horridus della psiche in cui si è costretti a provare un senso di disagio permanente; in cui si deve talvolta convivere con un’ambigua sensazione di vittoria mutilata e insoddisfacente, ripensando magari con disprezzo a tutto ciò che si è dovuto passare, a ciò che si è dovuto fare, per ottenere un risultato.
Ma se non si può sempre derubricare a semplice ingiustizia il prodotto della protesta violenta, se – nostro malgrado – le si deve riconoscere una funzione strumentale nel conseguimento di traguardi con valenze positive, si apre un nuovo interrogativo: il ricorso alla protesta violenta, di fronte al fallimento di tutte le altre strade, è un diritto? Nel corso della storia, miliardi e miliardi di uomini e donne si sono uccisi per un pezzetto di terra, per accumulare ricchezza, per la gloria; altrettanti miliardi sono morti in nome della libertà, della giustizia, della speranza. Queste stesse creature, sul baratro dell’estinzione auto-indotta, si limitano a lanciare un po’ di vernice in giro.
Trascende l’intento di chi scrive il voler stilare un decalogo delle situazioni in cui uomini e donne possano legittimamente ricorrere alla protesta violenta, o delle forme legittime che questa violenza possa assumere; né ci si propone di formulare una massima universale da declinare di volta in volta nel particolare di specifiche situazioni. Ma se l’orrore di fronte all’arte imbrattata – che sia con vernice lavabile o meno – supera quello generato dal pianeta distrutto, dal terrore di autocondannarsi all’estinzione precoce, è il chiaro segnale che urge una riflessione ulteriore. Abbiamo provato a sostituire, nelle rivoluzioni, il sangue con la vernice, rimpiazzato il rosso con altri colori meno dolorosi. E ora? Le Rivoluzioni sono da sempre disturbanti, le abbiamo rese anche inefficaci?
Si parla di “transizione” verso la cosiddetta ‘green economy’; ma, per i fini che si propone e, forse, per i mezzi di cui necessita, sarebbe più giusto parlare di Rivoluzione. Riuscire a cambiare radicalmente il nostro modello economico e sociale, rivoluzionarne il paradigma, sostituire il benestare economico con un concetto olistico e collettivo di benessere. Magari, riuscire a fare una rivoluzione senza versare una goccia di sangue, sarebbe forse la più grande impresa nella storia dell’umanità.

Nato a Cosenza nel 1994, vive a Roma dal 2012.
Medico e dottorando, si occupa di Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali.
Sul lavoro sogna una carriera che concili l’attività clinica con i pazienti e la ricerca.
Appassionato di libri (preferisce i saggi), musica (meglio se su vinile), serie TV (rigorosamente in streaming) e qualsiasi altra cosa gli passi per la testa!