Marta C. González Saldaña danza sulle note del “Lago dei Cigni” di Čajkovskij.
Ho le lacrime agli occhi e non perché mi abbia emozionato il balletto in sé – tant’è che la danza classica non mi è mai piaciuta particolarmente, ragion per cui già alla tenera età di 5 anni mi sono rifiutata di indossare un tutù rosa. Il punto è che questa ballerina di 93 anni è affetta dal morbo di Alzheimer, una malattia neurologica degenerativa che ti ruba la memoria e non ti dà modo di riconoscere te stessa.
Eppure, Marta, ex prima ballerina del New York City Ballet, ricorda ancora la coreografia. Ascolta in cuffia una musica, una melodia a lei familiare, nonostante non riconosca neanche il volto dei suoi cari. Improvvisamente quegli occhi spenti, persi nel vuoto, caratteristici di chi non ricorda nemmeno dove si trovi in quel momento, si accendono.
Hanno un guizzo di vita.
Marta ritorna in sé.
Si riappropria del suo corpo ossuto ed esile, costretto ormai su una sedia a rotelle, e con la grazia che la malattia non ha potuto cancellare, comincia a muoversi con eleganza e classe. Il suo viso muta: non ha più l’espressione di un’anziana signora ricoverata in una casa di riposo, ma della danzatrice calata perfettamente nella sua parte. È incredibile la sua trasformazione: è di nuovo la ballerina del 1967 che sembra quasi riemergere dagli abissi del tempo passato.
La malattia nulla ha potuto contro l’emozione che provava Marta quando era sul palcoscenico e quell’emozione si è propagata tra tutti gli spettatori che osservano quel miracolo temporaneo.
Ci sono emozioni, sensazioni, che il tempo non riesce a sopprimere, neanche di fronte ad una malattia infame come l’Alzheimer.
Perché dimentichiamo il nome di un vecchio compagno di scuola, l’appuntamento dal dentista, il biglietto della spesa, un numero di telefono, ma ricordiamo ancora con lucidità la prima volta che ci siamo innamorati, o quando abbiamo pianto fino a perdere quasi il respiro, nonostante il tempo trascorso?
Me lo ricordo quando la mattina, prima di andare all’asilo, facevo colazione: io seduta sul tavolo e mia madre in piedi di fronte a me mentre mi imboccava i biscotti inzuppati nel latte. Se ci penso, quel sapore lo percepisco ancora in bocca; forse era la banale dolcezza dei Plasmon o forse era la dolcezza di mamma e delle storie che mi raccontava per farmi mangiare.
Me lo ricordo il mio primo giorno di scuola. Sono passati 20 anni, non ricordo a che banco fossi seduta, ma ricordo quella sensazione di ignoto mista a curiosità. Ho nelle narici ancora l’odore della cancelleria appena comprata; il mio tatto ha in memoria il fiocco di raso blu brillante che accarezzavo insieme alla sensazione che stessi diventando grande.
Me lo ricordo quando mi sono fatta male a 9 anni: ricordo il dolore di quel bullone che mi ha penetrato il braccio; è durato un attimo ma è stato fortissimo. La luce al neon mi dava fastidio agli occhi tanto era forte, ma era necessaria al chirurgo per suturare al meglio la ferita, mentre il pizzicore delle punture di anestesia era ancora più fastidioso della poca pazienza del medico indispettito che mi ordinava di stare ferma.
Me lo ricordo quel profumo particolare, la felicità di quando da bambina scrivevo a Babbo Natale, della scelta dei regali accuratamente selezionati dal catalogo patinato dei giocattoli sfogliato tante di quelle volte da impararlo a memoria. In questo periodo dell’anno, avverto ancora le pagine tra le dita.
Era il Natale dell’allegria, della famiglia riunita, quando ancora c’erano tutti. Erano le risate a casa dei parenti, delle nottate a giocare a tombola, della voce di mio zio che imitava i personaggi del mercante in fiera, era l’attesa del regalo che aspettavo da mesi e l’ansia che quel regalo Babbo Natale non me lo portasse… e la gioia quando la mattina del 25 lo trovavo puntualmente sotto l’albero.
Me li ricordo i pomeriggi davanti alla TV; il rumore del videoregistratore mentre avvolgeva il nastro delle videocassette della Disney, che ho imparato a memoria e che stranamente non si sono consumate, nonostante tutto. Quei cartoni animati che guardavo sdraiata sul divano mentre mangiavo un Kinder Cereali con un succo di frutta all’arancia. Una merenda al sapore di spensieratezza, un rituale, un appuntamento fisso, il momento di svago abbellito da quelle canzoni che canticchiavo, saltellando sul divano, convinta che la vita fosse solo quella: allegria. Ora che ho imparato che la vita non è solo questo, cerco dentro di me, nei momenti più malinconici, quella bambina spensierata che contenta saltava da una parte all’altra della stanza e di riflesso sorrido e vado avanti.
Me le ricordo le mani lisce di mia nonna nonostante l’età, che se chiudo gli occhi mi sembra ancora di stringerle tra le mie.
Me lo ricordo il suono delle risate vere con gli amici. Quelle giornate a tratti infinite e a tratti troppo brevi, riempite con quelle battute che ancora oggi mi fanno ridere; quei crampi allo stomaco e quelle lacrime di felicità che dovevo asciugare prima che mi cadessero le lenti a contatto.
Perché non ricordo più come si affronta uno studio di funzione, ma ricordo perfettamente la strizza prima del compito in classe di matematica? Rivivo l’ansia anche solo al pensiero.
Sono una biotecnologa e ho studiato che le cellule a un certo punto muoiono: vanno in necrosi o in apoptosi. Ma le emozioni? Perché riescono a sopravvivere nonostante il tempo, nonostante tutto? Persino quelle che credevamo di aver affondato nel passato, improvvisamente ritornano a galla. Non so quale teoria scientifica ci sia alla base di ciò; l’unica spiegazione che posso darmi è che non siamo solo uomini, siamo umani: siamo fatti da cellule ed emozioni e sono proprio loro a distinguerci gli uni dagli altri. Loro fanno la differenza: un momento incorniciato da una risata o da un pianto, dalla gioia o dalla rabbia diventa indimenticabile rispetto a un momento apatico, privo di sensazioni.
Le emozioni rendono immortali i momenti della nostra vita, anche quelli più insignificanti, e ci appartengono; diventano insite dentro di noi, si abbarbicano ai nostri organi, ai nostri cinque sensi e ce le portiamo dietro, per ricordarci chi eravamo, chi siamo e chi saremo.
Cosentina classe 1995, laureata in Biotecnologie per la Salute.
Amante delle fiction al punto da conoscerne molte a memoria, legge sempre le interviste ai protagonisti e alla regia e adora sbirciarne il backstage, per comprendere a pieno il lavoro e la fatica che stanno alla base di un qualsiasi progetto.
Attenta e paziente osservatrice, ha spiccate doti di diplomazia e imparzialità.
Appassionata di scrittura, cinema, lettura di romanzi e musica!