Da cavallo di battaglia delle propaganda pentastellata durante la campagna elettiva del 2018, oggi il Reddito di Cittadinanza (RdC) pare essersi trasformato nel cavallo di Troia dei furbetti e degli scansafatiche, almeno nel mutato immaginario collettivo degli ultimi 2 anni.
Congegnato per essere il passepartout per il mondo del lavoro o per la riammissione nello stesso, ha da subito rivelato alcune criticità ed equivoci tanto da portare l’attuale premier Conte a richiederne una revisione; ma soprattutto, di affiancarlo ad un sistema informatico in grado di ottemperare alle varie richieste celermente e fornire un servizio di ricollocazione (che nel quadro originario doveva essere affidato ai navigator, dei quali si sono perse le tracce) degno di uno strumento di politica attiva del lavoro.
Ma perché oggi il RdC è tanto osteggiato?
Anzitutto, perché allo stato degli atti non pare essere ciò che i cinque stelle desideravano diventasse, cioè il mezzo attraverso il quale fornire ad una vasta platea di cittadini l’opportunità di essere liberi dal bisogno economico e allo stesso tempo offrire loro un sbocco professionale consono alle attitudini di ciascuno; a questo si aggiungano le difficoltà burocratiche e, a volte, uno scarso controllo dei requisiti reali (non quelli paventati) dei candidati, spesso in grado di eludere una corretta valutazione reddituale ed avvantaggiarsi del sussidio nonostante patrimoni poco limpidi e svariate prestazioni “in nero”.
I detrattori gongolano e i contribuenti sbuffano di rabbia per quello che pare proprio essere il non plus ultra delle politiche assistenzialiste.
Nessuno sa bene cosa facciano, e se ancora siano presenti, i navigator; gli stessi, già agli albori dell’istituzione della loro figura, lamentavano una carenza di informazioni sufficienti circa il programma da somministrare ai percettori del reddito, oltreché la scarsa collaborazione dei centri per l’impiego.
Su uno sfondo poco roseo, è stato il Covid a dare il probabile colpo di grazia alle velleità di chi si sperticava per tentare di salvare il salvabile di questa riforma, e lo smartworking non ha certo contribuito a migliorare la situazione.
All’indomani dell’accordo raggiunto in seno al Consiglio Europeo sul Recovery Fund (che fornirà all’Italia circa 209 miliardi di euro nei prossimi 3 anni, tra prestiti a fondo perduto e prestiti con condizionalità), i punti all’ordine del giorno del Governo sono drasticamente cambiati e la necessità di attuare riforme strutturali appare impellente per evitare che i cd. “Paesi frugali” attivino il freno d’emergenza qualora inizino a sospettare uno sperpero di fondi europei.
In questo contesto sconvolto dalla pandemia, il RdC non pare avere più dimora ed un suo ripensamento si rende necessario.
C’è chi opterebbe per la linea dura, cioè una tabula rasa per dare avvio ad altri tipi di riforme maggiormente indirizzate a favorire le PMI e, di riflesso, nuove assunzioni; altri, invece, preferirebbero ridisegnare apportando modifiche meno radicali.
Una rivisitazione nel secondo senso prende le mosse da due concetti: reciprocità e condizionalità della prestazione. Cosa significano? In soldoni, si tratta per lo Stato di garantire una certa entrata costante nel tempo al richiedente, espulso da tempo o mai inserito nel mondo del lavoro, a patto che questo impieghi tutti i propri sforzi e accetti le offerte che gli vengono prospettate (una sorta di bastone e carota).
Non basta però.
Un sistema che non riesce ad equilibrare questi due aspetti potrebbe ottenere gli effetti opposti rispetto a quanto preventivato: una condizionalità troppo stringente costringerebbe il candidato ad accettare lavori poco rispettosi delle sue inclinazioni, generando un senso di sfiducia e di abbandono totale delle prospettive lavorative, mentre un approccio più lascivo darebbe il via alla stagione degli scrocconi.
Allo stesso modo, la reciprocità dal lato statale è un argomento da non sottovalutare qualora lo sforzo finanziario risultasse troppo scarno: per far fronte ai costi necessari della vita, il percettore sarebbe obbligato a procurarsi una seconda entrata integrativa per vie poco lecite (volendo usare un eufemismo).
Comunque lo si voglia guardare, il Reddito di Cittadinanza appare monco e staccato dal mercato del lavoro. Forse non è del tutto da buttare, anche nell’ottica di future discussioni circa il salario minimo garantito; ma in un Paese come il nostro, alla ricerca di rilancio e ancor di più di smuoversi dal pantano del debito pubblico che lo affligge, soluzioni meramente assistenzialiste rischiano di rappresentare la pietra tombale di tutte le speranze di rinascita.
Cosentino classe 1995.
Studente di Giurisprudenza presso l’Università della Calabria e con un’inclinazione per l’ambito penalistico, ambisce alla carriera magistratuale grazie al suo amore per la giustizia e al bisogno di guardare sempre con occhio critico la realtà.
Sogna tutti i suoi mille sogni nel cassetto e condisce ogni giorno con una sana dose d’ironia.
Appassionato di politica, musica, cinema e sport!