“Non me lo dire.” Chiuse gli occhi. “Questo ciondolo mi sa di casa. Mi sa che era mio, non è così?”
È un venerdì mattina, un qualunque venerdì mattina di ottobre.
Il clima inizia a giocare con le nostre percezioni, la temperatura ci deride e se sei vestito troppo pesante muori di caldo, se troppo leggero muori di freddo; comunque sia, puoi star certo che la sera tornerai a casa con il raffreddore.
Ma si sa, ottobre è così. Lascia alle spalle il calore dell’estate e rivolge lo sguardo all’inverno più spaventoso.
Dicevo, era un venerdì mattina.
“Dovrei passare più spesso a trovare nonna” – penso tra me e me. Mi dico che non trovo mai parcheggio, che vado di fretta, che il tempo è sempre troppo poco per fare due o tre volte il giro del palazzo. Mento. Mento a lei, ma anche a me stessa. La verità è che ho paura di salire in quella casa, di guardarla in quegli occhi cerulei e perdermi nella loro confusione.
I nonni sono i fari di ogni nipote. Sono l’approdo sicuro per ogni naufragio, in ogni tempesta c’è la loro luce: un po’ come quando da piccolini mamma metteva le lucine rosse vicino al letto per combattere, almeno in apparenza, il nemico buio.
Così sono i nonni: qualunque cosa succeda, loro ti salvano. Dal buio, dalla noia, dalla fame, dal tempo. Talvolta anche da te stesso.
Non siamo mai pronti a perdere quella bussola e scaraventarci nel disorientamento, ma la vita è anche questo. “Chi bulissi” – questo direbbe lei, la mia nonna.
Quel venerdì mattina di inizio ottobre trovai immediatamente parcheggio così decisi di fare un salto da lei.
Stavano preparando il pranzo, o meglio, come al solito lo stavano friggendo.
“E dimmi un po’, ma tu il fidanzato ce l’hai?”
“Nonna, mi sposo! Ti sei dimenticata?”
“Uh, che smemorata! Lo vedi, la testa non mi aiuta più.”
“No, nonnì. È colpa di Giovanni che si fa vedere poco. Anzi, pensiamo a che ti devi mettere per l’occasione”.
“No, no. Ora pensiamo a cosa devi mangiare che sei sciupata”. Anche questo è un mantra: potrai essere in forma o meno, sarai sempre sciupato per tua nonna.
Ci accomodiamo, la tavola è imbandita e iniziamo a mangiare insieme “qualcosina”.
A pancia piena, poi, sbucciando due “russeddre” tipicamente ottobrine, iniziamo a parlare un po’ del più e del meno. Anche più volte dello stesso più e dello stesso meno, ad intervalli quasi similari. Non importa essere ripetitivi, ormai è un’abitudine. La cosa meravigliosa è notare l’espressione sempre stupita però comunque sincera accenderle il viso ad ogni mia risposta.
È furba, non te la da vinta (quasi) mai. Cerca sempre un appiglio, un ricordo a cui ricollegarsi per non cedere alla dimenticanza e, quindi, non cadere nel buio.
In quei momenti vorrei – dovrei – essere io il suo faro, la sua luce rossa nell’oscurità dell’oblio.
Per fortuna, in questi casi, interviene la vita, con il suo magico tempismo.
Ho il vizio di giocherellare con un ciondolo, in realtà un ciondolo che apparteneva a nonna e ancor prima alla mamma e chissà a chi prima di lei. Mi è stato donato al mio diciottesimo compleanno, con l’augurio “di portare sempre un po’ di me in te”; da quel momento lo porto con me tutti i giorni, in tutti i luoghi che ho vissuto.
È come un talismano, un portafortuna, una cassaforte: in quel quadrilatero perfetto è custodita la memoria di una generazione, i ricordi di tutte le donne che ho hanno posseduto e, poi, tramandato.
Il ciondolo cattura, come al solito, la curiosità di nonna che subito lo tocca, lo squadra, lo ammira.
“Ahi, come è bello questo. Chi te lo ha regalato? – No, no, no. Non me lo dire. Mi ricorda qualcosa, ma non so cosa. Ecco, sì. Mi sa di casa”.
L’abbraccio: lei è sempre stata il mio porto sicuro, e adesso io le ho restituito un po’ di casa.
Questo mi fa un po’ meno paura e mi accorgo che forse i ruoli si sono invertiti. Prima ero io ad aver bisogno di lei, per imparare a vivere, a leggere, a meravigliarmi, a dare risposte ai miei immancabili perché. Adesso, invece, è lei ad aver bisogno di me, per imparare a non dimenticare, per appigliarsi alla realtà, al tempo che corre, alla vita che passa.
La vita, con la sua interezza, riempie quella cassaforte fino all’ultimo angolino: la mente è satolla e rischia l’implosione. Non c’è più memoria, come nei pc, pertanto serve un altro contenitore al di fuori della mente e quell’involucro non può che trovarsi nelle persone che amiamo, quelle che ci salvano.
Prima sono i nonni per i nipoti, dopo i nipoti per i nonni.
E io ti prometto, mia adorata nonna, che cercherò sempre parcheggio, ad ogni ora e in ogni mese dell’anno, ti prometto che ti salverò dalla malinconia, dallo sforzo a cui ti sottopone la memoria, ti porterò fuori “quando verranno le belle giornate” se te la sentirai, ti terrò la mano e siederò vicino alla stufetta in soggiorno, ti racconterò anche le stesse cose, lotterò contro le tue paure e non ti abbandonerò.
Ed anche quando ti dimenticherai di me, ti prenderò la mano, ti farò accarezzare il tuo ciondolino e insieme torneremo a casa. Non ci sarà bisogno delle chiavi, perché la combinazione è nel tuo cuore.
Lì, anche tu non avrai più paura di dimenticare perché saremo insieme.
A tutti i nipoti del mondo,
perché i nonni sono il tesoro di ogni bambino
e i loro ricordi l’eredità più preziosa che possano tramandarci.
Prendiamocene cura.
Classe 1994, nasce e cresce a Cosenza, ma casa sua è il mondo intero.
Avvocato, donna in carriera e aspirante madre di famiglia, è laureata in Giurisprudenza alla LUISS Guido Carli e specializzata in Diritto di Famiglia e Minorile e in Diritto del Lavoro e Welfare, con esperienze di studio presso la Stockholm University in Svezia e la Universidade da Coruna in Spagna.
Ha viaggiato in numerosi angoli della Terra con lo zaino in spalla e la voglia di raccontarli.
Appassionata di letteratura, cucina, esplorazioni e ambiente!