"Guardi fuori. Più ci sentiamo liberi di esprimerci, di star bene, più pratichiamo quella libertà al fine di non sentire su di noi il peso della sconfitta, o degli altri che ci dicono qualcosa con cui non siamo d’accordo o che ci turba."

C’è sempre un gran silenzio in questi corridoi. È come se tutto tacesse nella perenne attesa di una soluzione. Sono sempre così poco illuminati, immersi in un’intima penombra nella quale affondare, come le poltrone, comode e scomode allo stesso tempo.

F: “Beh, come va oggi?”

Lo guardo con stufata aria di disapprovazione.

M: “Al solito, alti e bassi.”

F: “Quali sono gli alti e quali i bassi?”

M: “Solo bassi, in effetti.”

F: “Allora mi parli dei bassi”

M: “Cosa vuole sapere? Se l’ho rifatto?! Certo! Cosa si aspettava? Sono un recidivo.”

F: “Beh, vede, almeno ha scoperto che la costanza è una sua qualità?”

Ma ci crede davvero? Giuro, non capisco fino a che punto gli strizzacervelli possano fingere di credere che razza di pezzi di merda possiamo essere.

M: “Lo sa che lì fuori, in mezzo a quel ginepraio di persone che finge di essere sana, un recidivo, un recidivo viene punito maggiormente?”

F: “Lei deve imparare che non tutto è un tribunale. Non tutto è lotta o processo; men che meno questo posto”

M: “Ciò non toglie che però ci sono cose che facciamo che sono obiettivamente brutte.”

F: “E se provasse a guardarle da un altro punto di vista? Se si concedesse l’opportunità di trasformarla in qualcosa di positivo?”

M: “Ah, ho capito. Tipo ‘ehi, sei un coglione che gioca a fare il sadico con gli altri e con la propria vita, ma con buona costanza’. Un coglione socialmente impegnato, direi. Sa, non ci avevo pensato in effetti.”

Ride.

F: “Vede? È pure autoironico. Fa del black humor. Con un solo errore lei si è scoperto in due talenti. Due lati positivi. Lei può darsi questa possibilità: si fermi un secondo solo, guardi attentamente a ciò che le capita e ogni volta lo trasformi in qualcosa di positivo, di utile, di migliore. Se non è il primo a crederci, se non lo fa lei, non lo farà nessuno al suo posto.”

M: “A credere in cosa, esattamente?”

F: “Che può cambiare le cose. Che può trasformarle e arrivare fin dove vuole. Lei predica rassegnazione, ma non pensa a tramutarla in qualcosa che possa trasformarsi man mano in accettazione, in autostima. Se ci crede fermamente, se si impegna – visto che abbiamo scoperto che è pure un inguaribile perseverante – lei può cambiare la sua vita. Può buttare tutto alle sue spalle e scoprire una fiducia in sé stesso che non credeva possibile. Comprendere la sua specialità, e i traguardi che può raggiungere con le sue capacità.”

M: “Ma ne è realmente convinto?”

Se c’è una cosa che mi terrorizza delle persone è la loro sicurezza per niente, mentre io ho un dubbio per tutto. La gente così ti rifilerebbe una soluzione da spot pubblicitario di assorbenti anche mentre il mondo crolla tra un terremoto e una guerra civile.

F: “Certo! Se lei comincia a darsi la possibilità di investire su pensieri e sentimenti positivi verso sé stesso, tutto intorno a lei potrebbe cambiare. Se pensa positivo, creerà positivo. Finirà per scovare dentro di lei un’eccezionalità che non si aspettava.”

M: “Lei dice che magari posso essere straordinario anche io? Lo dice veramente?”

F: “Ha solo paura di scoprirlo davvero? Di avere su di sé il peso di questa responsabilità, perché poi non può trincerarsi dietro giustificazioni, lamentele e capri espiatori.”

M: “Ma, seriamente, perché uno dovrebbe temere di essere speciale?”

F: “Gliel’ho appena detto. Per il peso. Per le conseguenze.”

M: “E ognuno di noi può essere straordinario? Ma soprattutto crede che possiamo davvero così bene con sé stessi?”

F: “Certo che sì. Se ci crediamo, se ci impegniamo a trasformare le cose, a trovare il lato positivo, allora, forse, in quel caso sì: possiamo raggiungere qualunque obiettivo, e stare bene con noi stessi. Amarci un po’ di più.”

M: “Capisco”.

Silenzio.

Fingo sguardi meditabondi sul soffitto bianco. Ci sono sempre quadri di pittori espressionisti in questi studi. Klimt, Matisse, Schiele si stagliano su pitture avorio patinato, ruvide e tuttavia capaci di ammorbidire i pensieri, di offrire piacevoli distrazioni nell’attesa, durante le pause imbarazzanti, come ancore a cui la mente si appiglia per governare spasmi emotivi.

F: “Non è convinto eh?”

Eccolo.

M: “Non so. Mi chiedo, se tutti fossimo così straordinari, o perlomeno capaci di esserlo, forse non lo sarebbe nessuno. Non crede?

F: “Beh, questo…” – lo interrompo.

M: “Cioè, parliamoci chiaramente, io non me la bevo. Nel senso, quello che lei sta dicendo potrà essere davvero utile a qualcuno, farlo sentire meglio e, magari, capace di fare cose illimitate. Ma io non sono così. Il fatto di pensare di star bene con me stesso, non significa che io abbia sempre un buon motivo per farlo. Il problema di questa specie di movimento internazionale per l’autostima, dei podcast su Spotify che ti ripetono quanto tu sia forte, quanto tu sia speciale e debba credere in questo, è che sono del tutto distanti dalla realtà: non siamo tutti speciali. Io non sono speciale. Lei, probabilmente, mi perdoni, non ha niente di speciale. E sa che c’è? Vado in pezzi, continuamente. Perché è proprio così: le cose vanno in pezzi. E questa specie di dittatura dell’eccezionalismo, dello stare bene a tutti i costi, è soltanto sintomo di quanto ciò non sia materialmente possibile. Sa che cosa fa lei?! Lei mi dice di prendere quei pezzi buttarli nella spazzatura, chiudere il mastello, per poi riaprirlo e scoprire che quel piatto è nuovo. Eppure quei cocci, quei maledetti cocci hanno un valore. Non sono speciale. Non sono eccezionale e vado continuamente in pezzi. È incredibile come siamo talmente concentrati sul positivizzare ogni cosa, da perdere di vista il valore della negatività. Costruiamo generazioni di illusi e dissociati per cercare di convincerli che in ogni caso “andrà tutto bene”. Ma le cose vanno male. Vanno soprattutto male. E invece di dare un valore, un senso a quella negatività, a quella sconfitta emotiva, ci convinciamo che tutto sommato i nostri vizi non facciano così tanto schifo, che i nostri difetti siano virtù, e ci obblighiamo a non stare male. Magari il dolore non è produttivo, ma per noi stessi, ha un valore. Guardi fuori. Più ci sentiamo liberi di esprimerci, di star bene, più pratichiamo quella libertà al fine di non sentire su di noi il peso della sconfitta, o degli altri che ci dicono qualcosa con cui non siamo d’accordo o che ci turba. Sin da piccolo ci viene chiesto ‘cosa vuoi fare da grande? Cosa ti rende felice? Cosa ti fa stare bene?’. Ed è una stronzata, perché tutto sommato lo sappiamo. Ma le domande sono importanti, ed è ancora più essenziale porsi quelle giuste. Nessuno ci chiede “cosa sei disposto a patire? Cosa credi di poter sopportare? Come pensi di soffrire? Sai come reagire? Cosa ne vuoi fare di quel senso di sconfitta? Che valore ha il tuo dolore? E quindi, ne vale la pena?”

Silenzio.

C’è qualcosa di profondamente romantico in questa stanza tappezzata di Klimt. Sarà che le monomanie di Gericault mi hanno sempre convinto, ma di certo qui, assomiglia tutto ad un disegno esploso tinto di un ordine artefatto e professionale.

F: “Il tempo è finito”

M: “Ah, non me ne ero accorto”

F: “Ci vediamo la prossima settimana?”

M: “Certo.”

F: “Solito orario?”

M: “Solito orario.”

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