"Ci sono state, e ci sono ancora, molte routine nella mia vita che sembrano essere ripetitive e praticamente immutabili. Abbiamo bisogno di abitudini, per non annegare nei dettagli. Ma sorge spontanea la domanda, chi è il padrone, io o la routine?".

When routine bites hard and ambitions are low
And resentment rides high but emotions won’t grow
And we’re changing our ways, taking different roads
(Love will tear us apart – Joy Division)

I Joy Division lo sapevano già. Ian Curtis si riferiva alla monotonia di un matrimonio e di un rapporto fallito, ma non è difficile associare le parole di questa canzone alle nostre vite di ogni giorno. Quelle vite che sono immerse in una routine che affoga, inghiotte e annulla il resto se non glielo impedisci.

È il prezzo da pagare quando diventi un po’ più grande, quando si lasciano i banchi di scuola, dell’università e ti ritrovi chiuso tra le mura di un lavoro che sì, hai scelto – sperabilmente – ma che spesso sta lì a ricordarti che, ahimè, sarà quella la tua vita.
Per gran parte della tua vita.

Ci sono state, e ci sono ancora, molte routine nella mia vita che sembrano essere ripetitive e praticamente immutabili. Gran parte del mio mangiare, dormire, lavorare, litigare e, in effetti, pensare, sentire, sono per lo più routine. Non che tutte le abitudini siano cattive, anzi. Abbiamo bisogno di abitudini, per non annegare nei dettagli. Ma sorge spontanea la domanda, chi è il padrone, io o la routine? 

La routine è seducente, è vestita bene, soprattutto all’inizio, quando tutto deve cominciare. Le premesse sono ottime: sta lì, pronta, e al via, sembra tutto magnifico. Orari fissi, scadenze, ritualità quotidiane che prevedono le stesse persone, gli stessi mezzi di trasporti, gli stessi luoghi. È confortante, questa vita fatta di ripetizioni, di meccanismi noti e spesso poco mutevoli.

L’unica scossa è data da un imprevisto a lavoro, una gomma che si buca, un caso diplomatico che scoppia nel gruppo di amici. La routine è, anche, qualcosa che spesso annichilisce e stanca perché non muta e ci costringe, molte volte, a fare i conti con le nostre scelte.

E anche quando ne siamo assolutamente soddisfatti, accade che compaia quel piccolo rimpianto, quella fiammella fioca e tenue a ricordarci che, magari, c’è anche altro oltre a questo. Anche se, forse, questo è un discorso decisamente diverso.

Ma il più delle volte, la routine piace, è come una tredicesima perenne, un cuscino morbidissimo come i podcast che ascolto la mattina quando a stento ricordo come mi chiamo. È il più delle volte un rifugio, un porto sicuro in cui naufragare e sostare a tempo indeterminato – o finché dura il contratto.

E le abitudini sono belle, sono belle perché sono rassicuranti, sono l’unica salda a cui appoggiarsi, perché il resto, tutt’intorno, è piuttosto fuori controllo. Quindi, sapere di poter fare, ogni giorno, le stesse cose diventa consolatorio, come un placebo. 

Quando andavo all’università, la mia quotidianità era seguire le lezioni, studiare – ma non sempre -, uscire con amici, esplorare la città, dare gli esami. Ma, specie negli ultimi anni, avevo preso l’abitudine di partire ad ogni fine sessione per un weekend all’estero.

Questo piccolo rito migliorava le mie performance agli esami, stimolando in me il desiderio di fare bene e fare presto affinché il premio potesse essere più grande, meritato e piacevole. Ecco, la routine è anche un obiettivo, un qualcosa che speriamo di poter raggiungere perché significa – o potrebbe significare – una realizzazione personale e conseguimento di determinati obiettivi.
All’università lo scopo era la laurea, adesso, la conquista di un lavoro per cui abbiamo, per l’appunto, studiato e faticato molto.

Mi ritrovo spesso a pensare a quanto adesso sia difficile fuggire dagli schemi, trovare quel weekend fuori che ci dia lo sprone per fare meglio. Lasciando da parte i tempi pazzi in cui viviamo – la pandemia non è ancora un ricordo lontano – trovare del tempo per evadere è diventato quasi impossibile. E non sempre è per carichi di lavoro esorbitanti, ma, almeno a me, succede di sentirmi totalizzata nelle cose che faccio, per quanto siano poche, da non ricercare altro.

Anche se lo vorrei. Mi piacerebbe davvero trovare quella fuga, quella strada poco percorsa e battuta che mi possa far ritrovare. Provo ammirazione per chi, ad un certo punto, ha il coraggio di spezzarla, anche radicalmente.

Trovo coraggiosi quelli che partono, mettono in pausa e ricominciano altrove, con nuovi gesti e nuovi modi di intendere la propria vita. Vorrei chiedergli come si fa. Come si fa a guardare oltre, a trovare confortante anche capovolgere il senso delle cose di tutti i giorni. Vorrei sapere in che modo si può essere sé stessi anche facendo altro. 

Allora, come si interrompe il circolo vizioso degli schemi fissi? Come ricordarsi che possiamo reinventarci sempre, tutti i giorni, nelle stesse cose? Come tenere a mente che non c’è nulla di uguale nelle cose che facciamo, e quello che ci sembra assolutamente identico è, tutto sommato, simile?

Come far sì che ci sia sempre il tempo per fare quello che ci piace fare, per essere chi vogliamo essere – o, quantomeno, immaginarlo? Non credo di avere una risposta, sono domande che mi faccio davvero, davvero, molto spesso. Sono certa che un modo ci sia, ognuno avrà il proprio.
Come per tutte le cose, non ci può essere una sola risposta, perché ci sono troppe domande.

Forse dovrei iniziare a vedere la mia routine come una carezza, qualcosa che mi aiuta e mi sostiene quando tutto, intorno a me, non va nel verso giusto. Soprattutto quando salta un tassello del mio schema quotidiano. Apprezzare gli imprevisti, intenderli sempre come un valore aggiunto.

Ricordarmi che c’è sempre un modo per uscirne, e che sono io la padrona. Non la mia routine.

Lascia un Commento