Quando la preda è l’uomo: l’altra faccia del patriarcato

"Così il mio interesse sulla violenza e sugli abusi ha travalicato sia il singolo caso – nella fattispecie quello dell’insegnante di Torino - sia il genere, e si è allargato includendo non solo gli uomini gay e trans, ma anche una categoria che solitamente si esclude a priori da queste dinamiche; quella delle persone che, nei secoli, ha costruito mattone su mattone la società deviata in cui viviamo oggi e di cui, suo malgrado, è diventata ella stessa vittima, ovvero la classe dell’uomo medio, etero, bianco e cisgender."

Della storia sull’ingiusto licenziamento della maestra d’asilo di Torino, rea di avere – come tutt*- pulsioni sessuali ché se sei un’insegnante, allora è inadeguato fare sesso ed è fuori luogo condividere con il tuo partner dei video hard, sono due gli aspetti che, seppur passati un po’ in sordina, mi hanno nauseata e fatto riflettere se possibile ancor più sulla persistente sessuofobia che paralizza l’Italia, sulle giustificazioni agghiaccianti addotte dagli amici del vero criminale – per intenderci, quello che ha diffuso, senza consenso e incurante della legge, il materiale “incriminante”- e sul machismo endemico e omertoso del branco, che trova la sua massima espressione in certi gruppetti WhatsApp di cui probabilmente fa parte persino vostro padre.

Del primo s’è discusso e riguarda sia lo slut shaming, sia il ruolo che hanno avuto le donne all’interno di questa vicenda.

Sì, perché attorno alla vittima, morta soffocata da un’ingiustificabile gogna mediatica, si muovono, affamate, altre donne – le iene – allertate dal puzzo di cadavere e pronte a fare man bassa di quanto avanza della carcassa.

E le iene in questa e in molte altre vicende speculari non sono solo la moglie di uno del branco – per intenderci, quella che ha denunciato la strega all’inquisizione – e la preside – che ha annodato il cappio intorno al collo della malcapitata -, ma tutte le altre, le donne che hanno abbassato la leva per spalancare la botola sotto ai piedi della vittima, quelle dei vari “Ma se”, “Però forse”, “Io avrei evitato”, “Non lo avrei mai fatto”, col dito prono e pronto a tacciare l’ennesima strega e a distinguerla dal mucchio giusto quel tanto che basta per rovinarle la vita.

Con questa nuova ondata di femminismo da trincea che si propaga a zaffate (a dirla tutta, più sui social che nel mondo al di fuori di Instagram – sempre che ne esista ancora uno) il tanfo emanato da affermazioni del genere è ancora più pestilenziale di quanto non sia già di per sé stesso, e la tanto abusata espressione “solidarietà femminile” perde subito il suo slancio propulsivo e si sfracella al suolo in una nuvola di polvere.

Ci sono un paio di domande, – e così arriviamo al secondo aspetto disturbante di questa storia – che mi logorano (e, come logorano me, logorano anche tant* altr*), ma che nessun* ha il coraggio di pronunciare a voce alta per paura di essere fraintes* o, peggio, considerat* complice morale di questi criminali.

Se la maestra fosse stato un maestro, cosa sarebbe successo, ma, soprattutto, cosa accade quando ad essere vittima di vessazioni di questo tipo è un uomo?

Il rischio che queste domande, anche se legittime, siano male interpretate è un rischio concreto perché uno dei più grandi problemi che emerge da storie di questo tipo e dal femminismo disinformato è che alcun* finiscono per mestare e rimestare nello stesso calderone affermazioni come “I media giustificano gli uomini che molestano” e “Gli uomini non sono vittime di violenza”, appartenenti a narrazioni diverse, che possono sì incrociarsi, ma mai ridursi l’una all’altra.

Infatti, mentre la prima assunzione è inoppugnabile, la seconda non solo è discutibile, ma è addirittura errata, ed è errata perché la solfa sulle donne che non fanno certe cose è una bugia raccontata bene, una consolazione vuota che ci ripetiamo a vicenda per assolverci tutte (questa, ahimè, è una delle poche circostanze in cui la solidarietà femminile funziona senza alcuna falla).

Ma la verità che sta dietro a questa bella finzione è ben diversa e decisamente più squallida della sua facciata.

In molti gruppi WhatsApp di amiche, vengono condivisi quotidianamente foto e video dei “manzi” di turno, che, a loro insaputa, sono divorati fino all’osso dagli occhi e dalle parole famelici di donne che non erano affatto le destinatarie di quei contenuti.

Questa forma di violazione e violenza, per quanto sia affine a quella che si consuma nei “gruppi del calcetto”, è sotto certi aspetti più subdola della precedente ed è tale solo perché si camuffa meglio.

Una dissimulazione del genere è possibile per tre ragioni molto semplici: nel campo delle molestie, le donne dimostrano un atteggiamento più prudente e meno spaccone rispetto agli uomini; i canali che usano le donne per diffondere materiale pornografico di ex e frequentanti sono più circoscritti rispetto a quelli utilizzati dagli uomini; e gli uomini che denunciano sono pochissimi.

Se teniamo conto che le donne che segnalano alle autorità o a centri specifici di essere state vittime di abusi sono solo la punta dell’iceberg, immaginate quanti siano i casi sommersi di molestie ai danni di uomini.

Così il mio interesse sulla violenza e sugli abusi ha travalicato sia il singolo caso – nella fattispecie quello dell’insegnante di Torino – sia il genere, e si è allargato includendo non solo gli uomini gay e trans, ma anche una categoria che solitamente si esclude a priori da queste dinamiche; quella delle persone che, nei secoli, ha costruito mattone su mattone la società deviata in cui viviamo oggi e di cui, suo malgrado, è diventata ella stessa vittima, ovvero la classe dell’uomo medio, etero, bianco e cisgender.

Non soddisfatta delle mie ricerche da internauta, sia per la quantità esigua di informazioni ricavabili, sia per la faziosità di alcuni articoli, ho deciso di chiedere informazioni su casi di molestia di donne ai danni di uomini ad alcuni avvocati penalisti e a uno psichiatra.

La risposta che mi hanno dato è stata unanime: “Non hai idea di quanti ce ne siano”.

A colpirmi maggiormente è stata la storia di G., un uomo che veniva ripetutamente denunciato dalla moglie per lesioni aggravate che, in realtà, si procurava da sola soltanto per screditare e ricattare il marito, ma anche quella di M. che, dopo una sofferta separazione dalla moglie, è tuttora vittima del suo stalking e di continue diffamazioni contro di lui e contro altre donne ritenute “colpevoli” di aver frequentato l’ex marito. Oltre che allo stalking, mi è stato segnalato che M. è ad oggi soggetto a violenze verbali di vario genere, che includono persino i clienti per cui lavorava.

Accanto a queste storie di abusi domestici e soprusi psicologici – il più terribile dei quali è la minaccia di non far più veder loro i figli -, evidenziatemi dagli avvocati che ho consultato, c’è anche quella di F. che è stato invece vittima di un ricatto sessuale vero e proprio, perpetrato dalla sua ex ragazza tramite la realizzazione di un manifesto che lo ritraeva nudo e di volantini in cui comparivano il suo nome e cognome accanto alla fotografia di un pene.

Al contrario delle prime due, la vicenda di F. è possibile reperirla facilmente su internet, in quanto è un caso denunciato all’unico centro in Italia che si occupa quasi esclusivamente di molestie ai danni di uomini etero e cisgender: Ankyra. Se si legge il manifesto di questa associazione – per quanto io non mi trovi d’accordo con le opinioni sul femminismo contemporaneo della presidente Patrizia Montalenti -, è possibile notare – dati alla mano – che queste prevaricazioni non risparmiano nessuno.

Neanche le categorie più forti.

Ecco smontata in quattro e quattr’otto l’affermazione secondo cui nessun uomo subisce violenze. Alcuni uomini sono vittime di molestie di carattere sessuale e vessazioni psicologiche sia perpetrate da donne sia perpetrate da altri uomini, magari loro ex frequentanti/fidanzati o amici dei loro ex fidanzati.

Già dal 2016, il Data & Society Research Institute ha denunciato in diversi rapporti che, in media, uno statunitense su 25 è stato vittima di revenge porn o minacce relative alla diffusione di contenuto pornografico non consensuale sul web.

È stato stimato che ad oggi il fenomeno riguardi il 4% del totale degli utenti di internet negli Stati Uniti e nei paesi europei, e che, vista l’incidenza maggiore dell’uso di internet tra le fasce di popolazione al di sotto dei 40 anni di età, le vittime più frequenti siano ragazze e ragazzi tra i 18 e i 29 anni (in media il 5% della popolazione in questa fascia d’età ha riportato di essere stato vittima di revenge porn, contro l’1% della popolazione più anziana). Le vittime sono maggiormente ragazze e, a parità di età, circa il 17% dei giovani LGBT ha dichiarato di essere stato vittima di revenge porn o di minacce di diffusione di contenuto pornografico non consensuale, risultando il gruppo in proporzione più colpito.

Non stupisce quindi che nel Regno Unito la prima condanna emessa per questo reato sia nei confronti di una donna, madre di quattro bambini, colpevole di aver diffuso immagini della propria ex partner.

Per quanto riguarda gli uomini, si stima che siano soprattutto i ragazzi gay utilizzatori di App quali Grindr ad aver visto le proprie immagini condivise sul web senza consenso. Tuttavia, già da diversi anni su 4chan, popolare social network, si trovano pagine in cui vengono condivise le foto di nudo di diversi ragazzi, inviate da ex partner ambosessi al solo scopo di ridicolizzare le vittime.

L’aggravante? Data la difficoltà di ottenere la rimozione di materiali postati anonimamente, alcune vittime sono state pubblicamente derise dagli stessi amministratori delle pagine social in questione, protetti dal limbo giuridico in cui il revenge porn ricade ancora oggi in alcuni stati USA ed in diversi paesi europei, non esistendo al momento una norma comune in ambito UE che tuteli la diffusione di materiale pornografico non consensuale.

Pagine simili sono parzialmente “sparite” dal web dopo l’istituzionalizzazione nel 2016 del “diritto all’oblio” che tutela la privacy dei cittadini europei, obbligando siti e motori di ricerca ad omettere – ma non a cancellare – documenti e video ritenuti lesivi della privacy dei cittadini interessati, che restano però accessibili agli internauti situati fuori dall’UE.

Inoltre, discutendo con lo psichiatra che ho consultato, ho scoperto che spesso gli uomini non denunciano gli abusi che subiscono dai e/o dalle loro partner per paura di non vedere più i propri figli e/o perché assaliti da un profondo senso di vergogna.

La vergogna dell’uomo molestato è però molto diversa rispetto a quella che assale la donna molestata.

In molti casi, gli uomini – specie etero e cisgender – temono il giudizio che gli altri uomini – appartenenti alla loro stessa categoria – potrebbero avere su di loro, che è un po’ l’equivalente al maschile dello slut shaming. Se la donna viene stuprata, allora è una troia; se l’uomo viene picchiato dalla sua compagna, allora è una mezza sega.

Come potete vedere, il ceppo di tutti i mali è sempre lo stesso: la società patriarcale in cui viviamo e che dobbiamo decostruire fino all’ultimo tassello. Infatti, ancora oggi, nel XXI secolo, viviamo in un mondo in cui la donna viene considerata il sesso debole, una creatura incapace e la preda perfetta su cui riversare, a prescindere dalla sua volontà, qualsiasi forma di sudiciume, mentre l’uomo viene definito come il sesso forte, capace e predatore di e per natura.

Alla luce di quanto appena detto, ripropongo alla vostra attenzione il caso dell’insegnante di Torino, ma con delle piccole variazioni.

La maestra, in realtà, è un maestro che, nella sua sfera privata, pratica, come tanti, BDSM. Una sera, durante un rapporto consensuale con la sua compagna, si filma con il cellulare di lei mentre si fa frustare e stimolare la prostata con un plug anale. Per un motivo o per un altro, i due si lasciano. Lei, per ripicca, invia alle amiche nel gruppo dell’aperitivo settimanale il video incriminante, magari accompagnato da un “Guardate che porcherie da frocio mi chiedeva di fargli”.

Grandi risate, qualche sberleffo, e una delle donne nel gruppo dell’aperitivo settimanale – che guarda caso è pure una mamma di famiglia e devota fedele – tra un grugnito e l’altro, riconosce in quell’uomo con il sedere prono nientepopodimeno che il maestro di suo figlio e, sconvolta, decide di mostrarlo al marito che, devoto fedele pure lui, non vuole affatto che suo figlio abbia per maestro uno che fa ‘ste porcherie da frocio. Così gli balena in testa la pensata del secolo: mostra questo video intimo e privato al preside della scuola di suo figlio cosicché sarà lui a prendere i giusti provvedimenti, consoni alla morale e al decoro.

Non c’è bisogno che io vada avanti: come finisce questa storia lo sappiamo tutti.

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