Pride Month e Rainbow Washing: calate il sipario dei teatrini

"Siamo dei finti perbenisti travestiti da slogan."

Signore e signori, si prega di prendere posto e spegnere i telefoni. Lo spettacolo ha inizio.

Se davvero fossimo fieri di ciò che rappresenta la comunità LGBTQIA+, sentiremmo sul serio il bisogno di cambiare le immagini del profilo social solo per un giorno?

Quanta ipocrisia c’è in chi si nasconde dietro un “bisogna ricordare le lotte fatte per dimostrare dove si è arrivati”?
Perché, dove si è arrivati?

Il 43% delle aggressioni continua ad avvenire esattamente per omofobia. Gli insulti più comuni tra gli adolescenti sono “che*ca, fr*cio, camionista (accezione negativa per dire “lesbica”, ndr)”.

Dov’è che siamo arrivati?
Dove siamo arrivati se, nella fascia di età tra i 14 e i 19 anni, ci sono umani che si buttano dal balcone per non sopportare il peso che hanno nel petto?
Perché voi non avete idea di quello che si sente, in quel maledetto petto.

Per voi è facile condividere un post pro-LGBTQIA+ nelle vostre storie IG.
E domani? Domani, quando con la rainbow flag vi pulirete il muso mentre siete a pranzo e prenderete in giro il vostro amico che a 30 anni ancora non ha una famiglia? Domani dove saremo arrivati?
Ché magari quel pover’uomo una famiglia non può farsela, perché non sarebbe riconosciuta come tale.
Domani, sì. Domani.

Al pari della festa del papà, della festa della mamma, del 2 giugno, di qualsiasi altra ricorrenza si festeggia il Pride Month. “Addirittura un mese?!”; eh sì, perché così mostrarsi solidali può durare di più.
Però poi “no, per me possono sposarsi, ma i figli devono lasciarli a chi può crescerli”.

Siamo dei finti perbenisti travestiti da slogan. Siamo un’empatia fittizia.
Perché l’essere vicino al prossimo non è roba che si mostra sul maxischermo. L’ultima volta che ho controllato, sul maxischermo si mostra ciò che non si è.

E, in tutto questo baccano di motti incompresi, in questa corsa a chi è più solidale, la comunità LGBTQIA+ dove l’avete lasciata? In questo rainbow washing ostinato, che fa sentire sporchi e usati, le persone dove sono?
Qualcuno si è mai chiesto cosa significhi essere guardati senza essere visti?
Essere le guest star di uno spettacolo di Broadway con data di scadenza e sfamarsi con applausi, fiori e monetine, mentre dietro le quinte si consumano drammi che vedono tutti, tutti, dalla platea alla piccionaia, e nessun responsabile muove un dito per porvi fine una volta per tutte?

A tutte le persone che saranno martellate dal primo giugno in poi da questa ondata di ipocrisia vorrei dire soltanto una cosa: siete migliori di tutto questo.
Non siete una specie da proteggere, siete umani da amare. Da rispettare.
Non lo capiranno, è vero.
Ma è pieno di nuove generazioni per le quali non sarà necessario dipingersi il volto con dei colori che non sono i loro solo per prendere una manciata di like.
Bussano e busseranno alla porta, mentre oggi si consumano lotte che sembrano senza fine.
Le lotte fatte e rifatte, per poi arrivare ancora ad avere migliaia di morti e violenze per orientamento sessuale e genere.

Non abbiamo vinto nessuna battaglia, ma perdiamo occasioni sempre.

Spero che oggi chi si guarda allo specchio possa accarezzarsi l’anima, perché in tutta questa caciara non bisogna sentirsi obbligati a dimostrare il proprio amore, che sia per altri o per sé stessi. L’importante è sentirlo dentro, sentirsi dentro.
Spesso, fa tutto scena. E a luci spente? A luci spente, gli unici a vederci per davvero siamo e saremo noi stessi.

E a voi? A voi dico che lo spettacolo è finito. Spegnete i riflettori, abbandonate questo palco che non vi appartiene, chiudete le porte del teatrino.
Tornate a casa, ché domani ci sarà da tornare a puntarci il dito contro.

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