Prendimi la mano, scopriamo le Gallerie degli Uffizi

"La giornata al Museo finì così, dopo la straziante visione di Medusa decapitata, nel buio delle ultime stanze degli Uffizi. Uscimmo, il sole splendeva alto nel cielo azzurro. Il cuore, più ricco di come era entrato, batteva palpitante e pieno di riflessioni."

“Domani le previsioni portano maltempo; che ne dici se ci spostiamo da Bologna?” 
“Non è una cattiva idea, dove vuoi andare?”
“Andiamo a Firenze!”

Devo confessarlo: ero già stata a Firenze più volte ma, per un motivo o per un altro, non avevo mai visitato le Gallerie degli Uffizi. 

Tramite il sito web degli Uffizi prenotai quindi, immediatamente, due biglietti per il museo, con accesso previsto per le 12:45; cosicché, allettati da un’accesa curiosità, l’indomani mattina ci svegliammo presto pronti per partire alla volta di Firenze.

Arrivammo in Toscana dopo circa due ore di viaggio e alle 11 avevamo già parcheggiato l’auto.
Mossi da una leggera fame ci incamminammo verso il Mercato Centrale di Firenze dove provai, su suggerimento del mio compagno di viaggio, il panino con lampredotto. 

Il Lampredotto è un piatto tipico e poco conosciuto della cucina fiorentina a base di abomaso, una delle quattro sezioni dello stomaco dei bovini; è un piatto povero, ad oggi molto diffuso nel capoluogo toscano grazie alla presenza di numerosi chioschi dei cosiddetti “lampredottai” dislocati in diverse zone della città.

Con lo stomaco pieno e la mascherina sul naso arrivammo di fronte al museo.

Quest’anno ricorrono i 250 anni di apertura al pubblico degli Uffizi – il più antico museo italiano aperto al pubblico – che custodisce la multiforme collezione artistica dei Medici, formatasi a partire dalla metà del Quattrocento, a lungo custodita nei palazzi di famiglia e che, dal 1581, trova sistemazione nella loggia che si snoda sulla sommità del museo.

Una volta entrati, superate le sontuose scale che portano al secondo piano, accediamo ad un lungo corridoio impreziosito da un soffitto ornamentale e curato nei minimi dettagli (la “grottesca”, tipica decorazione fantastica ispirata ai fregi delle dimore imperiali romane, che prende il nome delle c.d. “grotte” della Domus Aurea di Nerone a Roma), e a cui lati risiedono ritratti alle pareti e sculture marmoree sul cammino.

Le odierne Gallerie degli Uffizi, architettate e costruite da Giorgio Vasari a cavallo tra il 1559 e il 1574, rappresentano il complesso monumentale che in origine era destinato alle Magistrature del ducato di Cosimo I de’ Medici. 

Gli Uffizi hanno una pianta ad U, costituita da due corpi lunghi, a levante e a ponente, collegati a mezzogiorno da una testata sul fiume con un’ariosa loggia al primo piano e un porticato a pian terreno che si apre sul piazzale.
Il loggiato, costruito alla quota sommitale dell’edificio e che perimetra la strada-corte, concede l’accesso alle sale collocate al piano terra dell’edificio e ne costituisce l’anticamera esterna e coperta: tale loggia si snoda da Palazzo Vecchio, attraverso il primo tratto del Corridoio Vasariano, fino alla copertura della loggia dei Lanzi.
In questo ambiente incanalato, lineare e luminoso, dal 1581 vengono disposte sculture in marmo, prevalentemente antiche: sarà solo nel 1582 che la loggia, chiusa con vetrate, verrà trasformata in Galleria: un uso destinato, nel lungo periodo, a egemonizzare tutto il complesso degli Uffizi, dove verranno custoditi manufatti artistici diversi, tra cui molti dipinti.

Francesco Bocchi la descrive così: “…dalla parte verso Oriente nel più alto luogo ha fatta il Gran Duca Francesco una Galleria così magnifica, così regia, che piena di statue, di pitture nobilissime, e di preziosissimi arnesi, delle più sovrane bellezze è oggi di vero al Mondo notabil meraviglia.. onde spaziando l’occhio in tante bellezze così diverse, così rare, così sublimi nel sommo diletto resta con l’animo quasi smarrito.”
Opera grandiosa e scenografica, gli Uffizi sono costruiti con il tipico materiale fiorentino, la pietra serena che risalta sull’intonaco chiaro.

Superate le prime sale in cui primeggiano gli affreschi di Giotto, Cimabue e Duccio di Boninsegna, e oltre le tele del Trecento e del primo Rinascimento, mi fermo, ammaliata, alla vista del Dittico dei Duchi di Urbino.

Il dittico, opera considerata di per se’ particolarmente pregevole, è dipinto su ambo i lati – all’esterno stanno i Trionfi allegorici relativi ai due personaggi sui carri – e raffigura sul recto i due duchi di Urbino, i signori di Montefeltro, il duca Federico II e la moglie Battista Sforza, affrontati, nel solenne profilo da medaglia classica di tradizione umanistica. Sul retro, poi, Federico II è accompagnato da alcune figure allegoriche che rappresentano le virtù cardinali; Battista Sforza, invece, sul secondo carro, è trainata da due liocorni che sono il simbolo della castità. 
I volti dei personaggi, come tutti quelli di Piero della Francesca, sono fortemente geometrizzati e somigliano a degli ovali: da questi si denotano facilmente le influenze fiamminghe che si riscontrano nella natura dipinta e nella cura dei dettagli.

Proseguiamo e giungiamo alla sala 10. Entriamo e rimaniamo qualche secondo in estasi: di fronte a noi compare la Primavera, celebre dipinto dal significato ancora controverso, la cui allegoria pare ispirata ai versi di Ovidio e Lucrezio o di Angelo Poliziano, caro amico di Lorenzo de’ Medici. Alla destra del quadro si intravede Zefiro che insegue e possiede la ninfa Clori per poi sposarla e darle la capacità di farla germogliare (si vedano i fiori che le escono dalla bocca); poi, al suo fianco, Flora la dea latina della Primavera e al centro Venere, che regna nel suo verde e florido giardino; poi tre donne, le Tre Grazie, simbolo della liberalità; e poi ancora Cupido, dio dell’amore e infine Mercurio, araldo di Giove, emblema della conoscenza. 

Secondo alcuni, l’allegoria della primavera potrebbe esaltare il matrimonio fra Lorenzo Pierfrancesco de Medici, amico di Botticelli, e Semiramide Appiani; un’altra ipotesi, invece, vede l’esaltazione metaforica delle Arti Liberali da leggere in chiave nuziale; comunque sia, l’opera rimane la forma più alta di ritorno all’età dell’ora nella Firenze di Lorenzo il Magnifico.

Nella sala di fianco, poi, partecipiamo entusiasti alla Nascita di Venere, la famosa Venere di Botticelli, unica e meravigliosa nelle sue forme. Qui Botticelli, ispirato dagli scritti di Omero e Virgilio, descrive Venere nuda, in piedi su una conchiglia che sospinta dai venti approda all’isola di Citera o Cipro.

Anche in questa opera si vede il genio di Botticelli: prende vita, infatti, la fusione tra spirito e materia, l’armonioso connubio fra Idea e Natura.

Superata la metà del corridoio, ci avviciniamo alla Tribuna, una cappella ottagona secolare, coperta da una cupola e impreziosita da sontuosi rivestimenti costruita nel 1585 per le opere d’arte più preziose.

La particolarità della sala è la sua cupola incrostata di conchiglie di madreperla su fondo di lacca rossa trasparente. La luce naturale scende dai vetri veneziani dalle finestre sui dipinti di Tiziano, Bassano, Veronese e altri, appesi sul velluto rosso cremisi delle pareti.

Uno spettacolo unico nel suo genere. 

Dopo il secondo e terzo corridoio, troviamo lo spazio riservato a Leonardo da Vinci e alle sue tele geometriche e lineari.
Incontriamo, continuando, l’Ermafrodito dormiente, la copia romana da un originale in bronzo del tardo ellenismo che raffigura un giovane dal volto femmineo che dorme sdraiato su un mantello appoggiato su una pelle di leone con le gambe incrociate. Esso racconta il mito di Ermafrodito, figlio di Hermes e Afrodite, follemente innamorato della ninfa Salmacis. Essa lo abbracciò, secondo la storia, così forte pregando gli dei di non separali mai: così gli dei esaurirono il suo desiderio unendoli in unico corpo.

Nelle stanze successive incontriamo Raffaello, Michelangelo, Rosso Fiorentino e Pontormo: tutti gli esponenti del Rinascimento che la prof di Storia dell’Arte provava a farci amare durante le sue lezioni al liceo. 

Continuando nella nostra esplorazione, incontriamo Tiziano, artista veneto creatosi nella bottega del Bellini. I suoi dipinti mostrano l’influenza dei poetici paesaggi della morbida pittura di Giorgione; divenne il più famoso artista veneziano, “interprete della sensualità e delle favole antiche come ritrattista”.
La sua opera d’arte più famosa all’interno degli Uffizi è la Flora, ma ciò che più catturò la nostra attenzione fu la Venere di Urbino.

E’, secondo la critica, l’immagine erotica fra le più celebrate: “una giovane dai capelli biondi sciolti sule spalle che guarda lo spettatore con occhi ammiccanti e allusivi”. La tesa evidenzia l’armonia cromatica tipica di Tiziano e il significato è sublime.
Nella mano destra, infatti, la donna lascia cadere delle rose rosse, che simboleggiano la bellezza: il far cadere le rose allude alla bellezza fisica che con il passare degli anni appassisce. Tiziano suggerisce intrinsecamente di basare la propria vita non su attributi fugaci, ma su qualcosa che può persistere, come ad esempio la fedeltà, simboleggiata, nella tela, dal cane.

Alla fine della galleria, nelle ultime stanze, prima di andar via, dopo lo stupore derivante dalla vesioni delle tele di Artemisia Gentilischi, viviamo un ultimo attimo di ispirazione: compare Medusa, la medusa dai capelli fatti di vipere che muta in sasso chi la guarda.

Il mito da cui trae spunto l’autore racconta che Perseo riuscì a decapitarla guardandola riflessa in uno scudo di bronzo levigato come uno specchio. Caravaggio dipinse l’esatto istante in cui Medusa venne decapitata: egli, infatti, ha sfruttato la forma convessa della tavola per accentuare il carattere drammatico della raffigurazione.

Nella Galleria affluirono, in conclusione, con il tempo, dipinti, disegni, sculture moderne, copie moderne dall’antico e manufatti diversi e diversamente preziosi. 
Nel 1737 la dinastia medicea si estinse: l’ultima erede, l’accorta e lungimirante Anna Maria Luisa legò – fortunatamente – alla città di Firenze le collezioni di famiglia, decretandone l’inalienabilità. 
In questo modo la strabiliante raccolta non verrà disseminata tra le svariate corti europee, come accadde a quelle estensi e gonzaghesche, per esempio. 

Nel 1769 Pietro Leopoldo di Lorena apre la Galleria al pubblico. 
Il direttore Giuseppe Pelli Bencivenni e l’abate Luigi Lanzi ordinarono e catalogarono le collezioni per scuole e la Galleria si propose come una sorta di “università museale”, che intese e intende ancora oggi fornire indicazioni didattiche ed educare criticamente i visitatori. 

La giornata al Museo finì così, dopo la straziante visione di Medusa decapitata, nel buio delle ultime stanze degli Uffizi. 
Uscimmo, il sole splendeva alto nel cielo azzurro. 
Il cuore, più ricco di come era entrato, batteva palpitante e pieno di riflessioni.
Ponte Vecchio, affollato di gente, ci fece da palcoscenico e ci rese i protagonisti di una cartolina vivente e a colori da tenere preziosamente custodita nei nostri ricordi. 

L’arte è una ricchezza e il nostro patrimonio culturale va celebrato, ricordato, e onorato non solo negli anniversari e nei centenari, ma sempre

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