«Beh, ecco: è molto strano. Quando ho saputo la diagnosi: cancro (un adenocarcinoma inoperabile al terzo stadio – che, per inciso, è il penultimo – ndr.) mi sono chiesto, insomma: “Perché proprio a me?”. Poi, quando ho avuto la buona notizia (una remissione inaspettata della massa tumorale ndr.), mi sono chiesto la stessa cosa.»
Così esordisce Walter White, quando, alla festa che sua moglie Skyler ha organizzato per lui (2×10), per festeggiare il buon andamento delle cure, Hank, il cognato, gli chiede a gran voce di dire qualcosa. Tutti si aspettano che le parole di Walt – la vittima, l’eroe, il sopravvissuto – racchiuderanno in sé un che di ieratico e illuminante. E quest’attesa febbrile gliela si legge negli occhi, che schizzano veloci da un punto all’altro del campo visivo e dal sorriso ebete, che si stampa in faccia a tutti quelli che non hanno un cancro, né l’hanno mai avuto e sentono parlare di cancro da qualcuno che ha il cancro o l’ha avuto. Perché, per chi non ha idea di che cosa sia “il cancro” né l’ha mai conosciuto per via diretta, noi, gli scampati, siamo poco più che delle attrazioni da circo, i personaggi di punta di un Freak Show.
Non appena, però, il discorso di Walt finisce, le luci dei riflettori si fulminano in un ronzio sordo e il puzzo di tungsteno bruciato si pianta come un punteruolo nelle narici di tutti. Gli occhi degli astanti dacché schizofrenici, si posano, fissi, su altro – su qualsiasi cosa di diverso da Walt – e il loro sorriso, delusa ogni aspettativa, si tinge di imbarazzo. Tant’è che è Walter stesso a cambiare discorso e a defilarsi dalla pessima posizione nella quale, ahilui, s’era venuto a trovare.
Nessuno ha mai prestato a questo passaggio di Breaking Bad l’attenzione che merita perché, da molti è visto è solo come una goccia che si può aggiungere ad altri eventi ben più significativi che porteranno Walt al tracollo.
Al contrario, ritengo che queste poche battute dicano del Signor White molto più di altre e l’ho capito solo ora; ora che non sono più tra le fila degli spettatori con il loro margarita in mano, ma nel cono di luce, di fianco a Walt. E, come Walt, mi chiedo tutti i giorni “Perché proprio a me?”, “Perché proprio a me una recidiva?” “Perché proprio a me un’altra – la seconda – remissione mentre ad altri, a tanti altri, no?”.
Ho ripreso in mano Breaking Bad perché mi andava di guardare una serie fatta come si deve, ma le cose raramente vanno per il verso che gli si vuole dare e così, in maniera del tutto imprevista, mi sono trovata da tutt’altra parte, faccia a faccia con Walter White… ma non col Walter White produttore di metanfetamine e narcotrafficante, ma col Walter White malato oncologico. Per intenderci, il professorino reticente che osserva con sguardo instupidito la macchia di senape sul camice immacolato del medico, che per primo gli illustra quale sia la sua condanna (1×1). L’uomo taciturno che no, non vuole farsi curare, non vuole che si ricordino di lui come un moribondo, come un burattino attaccato a dei deflussori (1×4), ma che comunque non demorde, nonostante la nausea, le ustioni da radiazioni, la cefalea, il vomito, l’astenia e la miseria umana che i chemioterapici portano al parossismo.
Sì, perché, alla fine, Walt si lascia curare e, checché ne dica lui, non lo fa per la sua famiglia, ma per sé stesso, per quell’anelito conservativo, irrazionale e viscerale, ché, tra morte certa e vita possibile, sceglierà sempre e comunque la vita – anche se precaria, arrancante e isterilita. E un’esistenza corrotta e immiserita da una malattia subdola come può essere un tumore incattivisce ed esaspera come nient’altro al mondo, perché il dolore, quello vero, quello che, per citare Zach, «ti accompagna fino alla tua fine», – checché se ne pensi e se ne dica -, non rende affatto migliori.
La ricerca indefessa e a tutti i costi di un sollievo da una sofferenza che da fisica si fa ben presto psicologica diventa il solo obiettivo che ci si prefissa.
Dato che Breaking Bad è un capolavoro e, come ogni capolavoro, contiene in scala l’universo preso nella sua interezza, Vince Gilligan sceglie per Walt una via di fuga atroce, insensata e paradossale tanto quanto la malattia che lo affligge. La produzione di metanfetamine diventa così una ragione di vita a cui attaccarsi per darsi egli stesso una ragione, un senso, una funzione in un mondo che, per parafrasare Foucault, ci vuole domati… ma le malattie, specie quelle radicali, non sono domabili o, almeno, non lo sono nel modo totalizzante in cui si vorrebbe.
Un po’ come Nanni Moretti che, dopo aver sradicato dalla sua vita il secondo tumore, alla domanda “Cosa le hanno insegnato tutte queste esperienze?”, risponde “Assolutamente nulla”, così Walter White dalla sua malattia non ha imparato niente, semmai il suo tumore gli ha dato modo di amplificare degli aspetti del suo carattere che, prima del cancro, erano solo rumori di fondo.
Infatti, Walter White non è mai stato lo stinco di santo descritto da Walter Jr sul sito di crowdfunding. Walt è solo un uomo geniale e arrogante con seri problemi di gestione della rabbia, frustrato nella sua genialità e costretto in un universo che non gli è mai appartenuto davvero, e l’adenocarcinoma – come si evince da certi discorsi, come, per esempio, quello che fa a Gretchen nella 2×6– gli ha solo consentito di esprimere appieno le sue capacità (su cui prima d’allora avevano sempre lucrato gli altri) in modo del tutto a-convenzionale, con rabbia e ferocia… perché sì, quando scopri di avere un tumore, due tra i primi sentimenti che provi non sono tristezza e paura, ma rabbia e ferocia… le stesse emozioni che si ricercano e che portano, nella 2×9, Walt a fracassarsi le nocche su un porta-salviette in un bagno di un ospedale oncologico.
Quel frame, quella rapida occhiata al suo riflesso distorto, sono perfette e lo sono perché è esattamente così che ci si sente, quando ti credi ormai spacciato e, invece, no, non lo sei. Mentre ti dicono che va meglio di quanto si creda, sai che è una buona notizia, ma questo non implica che tu ne sia felice… in quell’istante, non sei né gioioso, né triste, ma non provi assolutamente nulla perché non hai idea di che cosa si debba provare in circostanze del genere, un po’ come il bambino che cade e cerca negli occhi della madre la certezza di un sentimento di cui non cosce la forma né il nome. Ecco perché la rabbia, ecco perché la ricerca del dolore a tutti i costi ché sentir male è sempre meglio che non sentire affatto.
Così, ben presto si scopre che i soldi per la sua famiglia sono solo una scusante, un pretesto, una bugia accomodante da ripetere a sé stesso, per continuare a fare, indefesso, il criminale – ammissione che, del resto, farà White stesso a Skyler alla fine della serie. Non è un caso che la frase che ripete più spesso Walter – specie nelle prime stagioni (“La famiglia è tutto” ndr.) – è identica a quella pronunciata da Hector Salamanca (3×7), dopo una dimostrazione di violenza inaudita nei confronti di uno dei due nipoti – i gemelli Tuco. Di stagione in stagione, l’incombenza della morte, espletata dall’adenocarcinoma, sfuma sempre di più, ma non scompare mai.
Semmai si trasforma, in una nuova condizione esistenziale.
Una delle puntate maggiormente stroncate dai fan della serie (3×10) segna il momento in cui avviene questo passaggio. Solo allora Walt comprende cosa gli stia succedendo e gli sceneggiatori glielo fanno capire sfruttando una metafora brillante: l’ossessione di White contro una mosca finita per caso in laboratorio. Dopo una disperata caccia all’intruso, annebbiato dai sonniferi che Jesse gli ha sciolto nel caffè, Walt ammette l’inammissibile «Sono stato dall’oncologo settimana scorsa, Jesse – confessa – il cancro è ancora in regressione. Sto bene. Non ha ancora finito. L’ho perso… c’è stato un momento perfetto e mi è passato accanto. Avrei dovuto averne abbastanza, arrendermi, è questo il punto. E tutto questo non avrebbe alcun senso se ancora avessi voglia di vivere, ma dovevo mollare prima che lei lo scoprisse, Skyler, doveva succedere prima. Sto dicendo che ho vissuto troppo a lungo, uno vuole che sentano la sua mancanza, è così…».
Walt in poche battute esplica un sentimento tremendo e taciuto che è però, comune a chi è così vicino alla morte da percepirne, distinto/d’istinto, il fiato caldo sulla pelle. Un uomo che si credeva ormai spacciato non lo è più e, per quanto paradossale possa sembrare, non ne è affatto felice, anzi: ne è tormentato perché non ha idea di come gestirsi.
Walt ha perso l’attimo e nel suo confessionale ipotetico chiede perdono al suo confessore e riconosce a Jesse e a sé stesso che è sì stanco di vivere, ma non ha comunque il coraggio di lasciarsi andare, restando così sospeso a mezz’aria, piedi penzoloni, appeso a una corda in un limbo tra l’esistenza e l’estinzione. La corda stretta intorno al collo di Walt è la criminalità, la sua sete di denaro e di rivalsa, le stesse ragioni che lo porteranno al declino inesorabile e al tracollo definitivo. Perché Walt non morirà falcidiato dal suo tumore, ma da quanto il suo tumore da latente ha reso manifesto.
In questo modo, “Walt col cancro” defluisce tra le griglie narrative della serie perché i contorni di Heisenberg si facciano via via più definiti, anche se il nocciolo del personaggio – la sua parte solida – resta quella. Heisenberg non è altro se non un composto aplologico – per quanto bislacco – di due termini: “Walter White” e “l’adenocarcinoma al terzo stadio”.
Ciò sta a significare né più né meno che le estreme conseguenze a cui arriverà White, si possono cogliere in controluce già nella prima puntata della prima stagione, quando il medico rivela a Walt che è affetto da un cancro incurabile. Il tumore non è un dono, né qualcosa che ci rende migliori, ma un altoparlante che amplifica fino allo stremo e all’estremo quello che siamo sempre stati e che, almeno in parte, non sapevamo di essere.
“La natura della malattia è oscura quanto la natura della vita”, scriveva Novalis vittima della sua follia, e una citazione del genere sarebbe la tagline perfetta per Breaking bad.
Nata a Cosenza alla fine del 1994, trapiantata a Milano da diversi anni.
Laureata in Filosofia e specializzata in Scienze Filosofiche, esperta di Rivoluzione Francese e vincitrice di numerosi premi letterari, ha collaborato a soli 19 anni ad una nuova traduzione di un’opera di Kant, è un’accanita sostenitrice della ricerca contro i tumori e attualmente si occupa di risorse umane e della stesura del suo primo romanzo.
Appassionata di storia, scrittura, letteratura e fotografia!