Perché “Il processo ai Chicago 7” mette in crisi la democrazia

"La pellicola porta ad interrogarci sul significato più profondo di quelle istituzioni che noi, figli della democrazia, crediamo buone e giuste: fino a che punto il pensiero e la sua espressione sono processabili?"

Il processo ai Chicago 7 in sé è una pellicola coraggiosa, perché raccoglie la sfida di tenere davanti lo schermo per 120 minuti un pubblico sempre più accomodato sui 40 delle attuali serie TV. Tutto ciò, però, è facilitato da una scelta di linguaggio che costringe nel corso del tempo a cambiare le struttura del dramma in modo che la sostanza e i profondi contenuti di senso emergano in tutta la loro forza; e questo corrisponde fin troppo chiaramente ad una scelta narrativa che lo sceneggiatore di The Social Network ha adottato con consapevolezza e lungimiranza.

Il processo ai Chicago 7, infatti, è un film drammatico che veste i panni della commedia, a tratti surreale ma in un contesto ahimè verosimile. Le battute e i dialoghi dei personaggi, a tratti sconnessi ma sempre divisivi nel loro sovrapporsi, raccontano un evento di ieri fin troppo somigliante ad un oggi sempre più prossimo.

Sebbene il film prenda le mosse dalla descrizione degli 8, non 7, imputati nel processo, nessuno di essi viene realmente approfondito durante la pellicola; e questa, forse, è l’unica vera pecca del film. La cinepresa di Aaron Sorkin prende dalla commedia l’aspetto polarizzante dei personaggi, chiusi dentro tipi caratteriali precisi e uniformi.
Ciò alimenta il racconto del processo e degli eventi narrati (sedizione, cospirazione) in cui la natura umana spinge sempre verso distinzioni nette e perentorie, in cui il bianco e nero si sovrappongono senza lasciare adito ad alcuna sfumatura. Ma è anche questa l’America degli anni ’60; un po’ come l’America di oggi.

In breve, la pellicola racconta di una delle pagine più drammatiche della storia democratica di uno dei paesi che vanta ancora oggi di essere stato non solo fautore della democrazia, ma finanche suo “esportatore” (il classico vizio capitalistico americano di mercificare anche le forme di governo).
Siamo negli anni ’60 quando gli USA di Lyndon B. Johnson si apprestavano a intraprendere quella campagna suicida che fu la guerra in Vietnam, mentre il suo Presidente procedeva al reclutamento alla leva direttamente in televisione, estraendo numeri come in una sorta di macabro bingo.

Ad opporsi all’iniziativa militare, gli esponenti dei vari gruppi della controcultura giovanile di sinistra dell’epoca – quella che non si è mai riuscita ad affermare negli Stati Uniti – che decide di organizzare una protesta pacifica a Chicago, durante la Convention Nazionale Democratica del 1968. La manifestazione però si svolge nel disordine generale, a cui seguono i tafferugli tra polizia e manifestanti nel segno del fumo e del sangue, mischiati tra manganelli e zampe d’elefante.

Il sipario del ’68 però, in America, cala con il cambio di presidenza che vede quel “fortunato” Richard Nixon, repubblicano, prendere il posto di Johnson. Con essa si insedia anche la nuova procura generale che consente a quella “felice” amministrazione di intavolare un processo contro gli esponenti di quei gruppi con l’accusa di cospirazione politica. Un modo, il più classico nella storia degli Stati Uniti, di mettere sotto processo l’opposizione politica dell’amministrazione presidenziale.
Il processo infatti – come ripete allo sfinimento uno degli imputati, Abbie Hoffman, rappresentante del Partito Internazionale della Gioventù – non è penale o civile, bensì politico.

Tra l’ironia, leggera ma meditata, l’inverecondia, incalzante e appassionante, e la seriosità di personaggi così segnatamente schierati, Sorkin, ripristina in stile “americanata” il senso e il valore delle ideologie. E lo fa soprattutto attraverso la personalità più trascinante del film, sempre quella di Abbie Hoffman, che alla domanda su quale sia il prezzo per annullare la rivoluzione, risponde: «la mia vita».
Questo forse il punto più distante dal nostro tempo, prodigo di estremismo ma che rifugge dalle ideologie tacciandole di falsità e di irrealismo: chi ai giorni nostri è pronto a morire per un’ideologia? Cos’è che orienta davvero il nostro agire morale e politico?

La commedia, trainata spesso dell’irriverenza dello stesso Abbie Hoffman, (Sacha Baron Cohen, famoso per Borat, ma qui quasi da Oscar), incalza nel ritmo il dramma che spesso viene proiettato attraverso la costruzione delle ambientazioni. Il potere, quando si fa dominio, agisce con le tapparelle abbassate, anche di giorno, perché le decisioni oscure esigono le tenebre (come accade quando si sceglie di imbastire il processo, o come per ogni decisione presa nell’ufficio personale dall’imperdonabile giudice – uno straordinario Frank Langella).

La stessa aula del processo, che è anche l’immagine che chiude il film, è un luogo in cui la penombra è trafitta dall’anelito di giustizia attraverso i pochi e sparuti raggi di sole che riescono a filtrare nell’aula. Al racconto del dramma partecipano, però, anche l’alternanza dei fotogrammi reali presi dai telegiornali dell’epoca, così come quel coro altisonante che risuona all’inizio e alla fine del film, «Tutto il mondo ci guarda», a ricordare che non esiste piccola ingiustizia che non si faccia eco di una più grande e involgente. Tutto ciò dà corpo ad un film tragico che comunica attraverso il linguaggio rubato alla commedia un messaggio tanto più doloroso e straziante perché ancora impietosamente attuale.

La pellicola, infatti, porta incessantemente ad interrogarci sul significato più profondo di quelle istituzioni che noi, figli della democrazia, crediamo buone e giuste: qual è lo scopo di un processo? Che significato hanno le norme e i procedimenti che abbiamo creato per assicurarci dalle ingiustizie? Le figure che dovrebbero tutelarci, dai poliziotti ai procuratori, fino ai giudici, agiscono sempre in aderenza alle finalità per cui sono state create? Fino a che punto il pensiero e la sua espressione sono processabili?

Lo spettatore esce drammaticamente confuso dal vuoto di senso che la realtà oppone alla bella retorica che fluisce attraverso le risposte cui danno seguito questi punti interrogativi. Il tutto è immerso poi in un contesto in cui personaggi e narrazione si muovono costantemente sul filo di una persistente polarizzazione. D’altronde, l’aula di tribunale è per definizione tempio del manicheismo: buoni e cattivi, inquisitori ed imputati, colpevoli ed assolti, giusti e ingiusti, guerra e pace, verità e menzogna. Ma è sempre possibile dividere il mondo in due?

Fino a che punto possiamo lacerarci fino a diventare piccoli atomi invisibili nelle mani di un gioco più grande di noi?

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