Pasqua Nova: sintesi di una palingenesi.

"È implicitamente inteso che nell’idea stessa di rinascita vengano incluse – da un lato - la liberazione da qualcosa e – dall’altro- la distruzione di qualcos’altro. Pensiamo adesso al nostro sfortunato momento storico. È più che scontato asserire che tutti vogliamo liberarci dalla stretta soffocante della pandemia… ma è l’unica cosa di cui dovremmo liberarci? La risposta a questa domanda dipende, a sua volta, dal punto di vista con cui si sceglie di affrontare un’altra questione, che è la seguente: Il Covid19 può essere considerato una causa o un effetto? Per quanto mi riguarda, la risposta è inequivocabilmente la seconda. Il virus è stato il catalizzatore perfetto di una crisi organica celata nell’ombra della nostra (a)normalità quotidiana".

Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sani in un mondo malato.

Così parlava Papa Francesco il 27 Marzo scorso, in occasione dell’omelia straordinaria per la pandemia, nella piazza completamente vuota di San Pietro.

Mancavano pochi giorni alla prima Pasqua da “reclusi” delle nostre vite.

Qualcuno si cimentava in cucina, qualcuno riscopriva l’arte di prendersi cura del proprio corpo, qualche altro ancora si buttava a capofitto nelle maratone su Netflix. Tutti, indistintamente, speravamo di non ritrovarci nella medesima situazione l’anno successivo.

Eppure eccoci qui.

La mattina, sui posti a sedere dell’autobus che porta tutti a lavoro, riesco a leggere negli occhi delle persone una stanchezza, una pesantezza inesprimibili. E allora penso: è giusto fare tutti i sacrifici che stiamo facendo?

Probabilmente.

È giusto sentirsi demoralizzati e avviliti? Assolutamente sì.

Il crollo, fisico e/o emotivo, che ha investito tutti, senza fare sconti a nessuno, è – a mio modesto parere – congenito alla situazione attuale.

Non è stato difficile, dunque, in questi giorni appena trascorsi di ritrovata serenità pasquale, pensare che avessimo bisogno di sperimentare sulla nostra pelle il senso della parola “rinascita”.

Non affermo nulla di nuovo se dico che la Pasqua – intesa proprio come “rinascita” – è la festa cristiana per eccellenza.

La parola deriva dall’ebraico pesah e, dall’aramaico-giudaico, pisḥā. Il termine “Pasqua” significa “passare oltre”, “andare al di là”.

L’uovo di cioccolato, oramai perlopiù indice di consumismo estremo, è un simbolo che cela, in verità, un significato molto più profondo.

Non tutti sanno, infatti, che l’uovo sodo era presente, fra altri cibi rituali, sulla mensa della Pesach, la festa ebraica che celebra il “passaggio” del Mar rosso  e la  liberazione  del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto.

Ebbene, in questo particolare anno di schiavitù mentale da Covid19, anche chi non è cristiano, può ben percepire l’urgenza di una rinascita.

Bene.

Mi chiedo però… quale rinascita? Inutile ammettere che si tratta di un concetto troppo complesso per essere indagato tout court in queste poche righe, tanto che per ogni lettore potrebbe assumere un significato completamente diverso a seconda delle circostanze.

Proverò allora a non cedere alla tentazione di rendere i miei pensieri delle pretese universalistiche, presentando quella che la sottoscritta potrebbe a buon titolo definire una rinascita.

Torniamo al principio.

Nel greco antico, il termine utilizzato per indicare l’atto della rinascita era palingenesi, dall’unione di πάλιν «di nuovo» e γένεσις «creazione, nascita».

Inizialmente utilizzato nell’orfismo per indicare la rinascita o la trasmigrazione (in questo senso si parla di metempsicosi) dell’anima dopo la morte del corpo, il vocabolo è stato poi esteso nel suo significato, fino a designare la ciclica “restituzione” o “ristabilimento” del cosmo dopo la sua ricorrente distruzione.

È implicitamente inteso che nell’idea stessa di rinascita vengano incluse – da un lato- la liberazione da qualcosa e – dall’altro- la distruzione di qualcos’altro.

Pensiamo adesso al nostro sfortunato momento storico.

È più che scontato asserire che tutti vogliamo liberarci dalla stretta soffocante della pandemia… ma è l’unica cosa di cui dovremmo liberarci?

La risposta a questa domanda dipende, a sua volta, dal punto di vista con cui si sceglie di affrontare un’altra questione, che è la seguente: Il Covid19 – e tutto quello che questo acronimo ha comportato – può essere considerato una causa o un effetto?

Per quanto mi riguarda, la risposta è inequivocabilmente la seconda.

Il virus è stato il catalizzatore perfetto di una crisi organica – nel senso gramsciano del termine – celata nell’ombra della nostra (a)normalità quotidiana. E del resto non sono di certo io la prima a sostenerlo.

Marco Revelli, l’11 Marzo del 2020 (due giorni dopo l’inizio del primo lockdown), scriveva riferendosi al virus:

«In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i “vecchi”, in primis) e meritevoli i vincenti (i “forti”)? L’isolamento cui ci obbliga, la rottura dei legami che impone come autodifesa, non è il programma thatcheriano della cancellazione della società in nome dell’individualismo estremo fatto codice genetico? “Tenere gli altri a distanza è l’ultima speranza”, sintetizza Elias Canetti nel folgorante capitolo intitolato appunto “Epidemie” del suo Massa e potere: non è quello che filosofi analitici nozickiani e professori di economia dell’impresa bocconiani ci hanno dispensato in tutti questi anni come regola aurea? Lo stesso crollo dei mercati finanziari sotto l’urto del morbo e della paura, non è il segno di quella fragilità strutturale del “finanz-capitalismo” (per usare il termine di Luciano Gallino) a suo tempo denunciata dai pochi “gufi”? In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui precipitano in un punto solo (e si rivelano) tutte le linee di crisi del nostro tempo».

Se questo è vero, liberarci dal virus ci permetterà di rimuovere momentaneamente i sintomi fastidiosi della malattia, ma non basterà a fermare il decorso della patologia in atto.

Per tentare l’impresa, bisognerebbe estirpare il male alla radice ed è in questo caso che mi avvalgo del concetto di “rinascita”.

Declinerei la nozione rispetto a tre specifiche categorie.

Rinascita sociale, dove per “sociale” intendo, in questo contesto, tutto ciò che ha a che vedere con la società civile nel senso hegeliano del termine, vale a dire con quella sfera di rapporti che prevede il soddisfacimento dei bisogni individuali.

Non è cosa nuova lo scollamento avvenuto negli ultimi decenni tra quest’ultima e il comparto propriamente politico del paese e le colpe della nostra apatica classe dirigente sono ben note.

Bisogna tuttavia avere l’onestà intellettuale di confessare un atteggiamento quasi totalmente passivo dei cittadini nei confronti di tutto ciò che riguarda la polis. Di tutto ciò che riguarda i nostri bisogni, per l’appunto.

Se c’è un dato che la pandemia ha portato alla luce con assoluta chiarezza è che non si può prescindere dall’interdipendenza dei bisogni in una società globalizzata e multiculturale come quella che conosciamo nel 2021.

È controproducente pensare che si possa continuare ad innaffiare il proprio orticello senza preoccuparsi minimamente per quello del vicino perché prima o poi, inevitabilmente, i suoi problemi diventeranno i nostri problemi.

Il verificarsi di un evento imprevisto qual è il Covid19, ha reso evidente l’insostenibilità del dispositivo egemonico che sembrava fino a ieri immortale e ci ha costretti ad interrogarci sulla fallacia dei suoi dogmi: «il primato del fare sul pensare; del privato sul pubblico; dell’economico sul sociale anzi su tutto il resto; del consumare sul conservare; del prevalere sul condividere; la forza della competitività contro la cooperazione… Una “visione del mondo”, da rovesciare».

Rinascita politica. Come si rovescia una visione del mondo? Chi dovrebbe farsi promotore di questa grande metabolè? La politica.

Si badi bene a non considerare questo tipo di rinascita come conseguenza diretta della situazione emergenziale che stiamo vivendo. Per compiere un balzo decisivo nel futuro servirà un cambio radicale di prospettiva e di contenuti.

Di prospettiva, perché alla base delle politiche ultraliberiste degli ultimi vent’anni c’è un ribaltamento completo di ruoli tra politica ed economia, tra pubblico e privato: non più la prima a regolare ed imporre limiti alla seconda, ma la seconda a dettare legge alla prima. La famosissima lex mercatoria, per intenderci.

Di contenuti, perché la condizione necessaria – anche se chiaramente non sufficiente – per rendere possibile un’inversione della rotta fallimentare fin qui seguita consiste nella «restituzione ai principi costituzionali, e in particolare ai diritti sociali e del lavoro, dell’assoluta rigidità normativa proveniente dal loro rango costituzionale e oggi usurpata illegittimamente dalle leggi del mercato».

Nello specifico del panorama italiano, si tratterebbe, ad esempio, di dare attuazione concreta all’articolo 3, comma 2 della Costituzione, che impone di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che [limitano] di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini».

È questo un principio di portata rivoluzionaria, che da solo basterebbe ad indirizzare qualunque politica democratica, sia di livello nazionale che di livello sovranazionale: si tratta infatti di un principio dinamico e direttivo, che impone alla politica un progetto di trasformazione orientato non a una mera crescita economica indifferenziata, bensì alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale e perciò alla redistribuzione della ricchezza mediante un serio prelievo fiscale e un’effettiva garanzia dei diritti sociali e del lavoro.

Rinascita spirituale. La politica è fatta di uomini. A voler essere realisti, in termini machiavellici, la politica è fatta di volpi e leoni: inutile vagheggiare utopie, ciò che conta è la verità effettuale delle cose.

Se questo è vero, forse, prima di puntare disperatamente il dito su chi ci governa, dovremmo compiere un faticoso esame di coscienza.

Vogliamo essere conniventi di un sistema economico-finanziario che continua a far arricchire i pochi a scapito di miliardi di impoveriti o vogliamo finalmente liberarci dalla schiavitù? La faccio ancora più semplice: che tipo di persone vogliamo essere?

L’uomo nuovo – era solito affermare Norberto Bobbio – non è mai nato e forse non nascerà mai.

E, tuttavia, non smetto di pensare che, se una rinascita possa ancora esserci, debba essere cercata nelle ragione dell’uomo. Nella ragione e forse anche nell’anima, quel pezzo di anima che non cede all’indifferenza e sente ancora con l’altro.

Nessuno si salva da solo: questa è la lezione più grande dell’immane tragedia che stiamo vivendo.

E allora io mi auguro che si possa rinascere tutti insieme, aggrappandomi – per dirla con le parole di Max Horkheimer – alla «speranza che, nonostante tutta questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola».

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