"Apprezzo la purezza di chi, nel dolore, non si ammala. Di me non si è salvato poi molto."

πάθει μάθος: quando la conoscenza si fa dionisiaca

Costruire un’epica della dissoluzione ha già nelle sue premesse un atteggiamento decostruttivo nei confronti di tutto ciò che è finito.

Il compiuto è, per definizione, un già dato, un in fieri ultimato, una soluzione all’irrealizzato che si arrende (ne/a)ll’atto stesso della sua realizzazione.

La morte e il dissipato non sono tanto i logici contraddittori del compiuto, ma della possibilità stessa del compimento.

Un’epica della dissoluzione, quindi, pur descrivendo la realtà, la priva della sua realizzazione: in altre parole, del processo che ne attualizza le potenzialità.

Mediante questo annichilimento, l’esistito si rivela come un neo – la contrattura obbligata dell’esistente.

Quando ho letto per la prima volta i componimenti, che sto introducendo, ho notato come, nelle parole dell’autrice, la discromia dell’esistente – risolta nell’esistito – perda di tonalità… in un certo senso, sfumi fino a svanire del tutto.

Quanto è stato e quanto continua ad essere si compenetrano a tal punto da (con)fondersi in un continuum esasperato ed esasperante.

Il travaglio – il tramite bestiale che porta alla luce – è un dolore che nell’autrice non genera vita, ma nuove forme di dolore. Le realizza, appunto.

Come una Pandora ipotetica, Rizzica scoperchia il vaso di un’interiorità – la sua, la mia, la nostra – da cui, sfuse e sparse, serpeggiano le sue, le mie, le nostre tragedie.

La scelta stilistica di sillabare il titolo così da darne uno specifico a ogni sezione del trittico conferisce al componimento un’ulteriore forza dirompente e comunicativa.

Il “Pan” della prima non rievoca tanto alla memoria il dio greco Pan, ma Phanes che, nella cosmogonia orfica, rappresenta la divinità primigenia datrice di vita.

Al dio creatore, succede il “Do”: la prima persona singolare indicativa presente del verbo “dare” che, in Rizzica, coincide con l’abnegazione di sé, col farsi a pezzi per offrire i propri avanzi in un sacrificio potenziale.

E, infine, ecco “Ra”, la divinità polivalente per eccellenza che è al tempo stesso lucifera e Lucifero, luminosa ed infernale.

Così, in pochi versi e con fermezza atroce, l’autrice ci ricorda che il dolore ha sì tante declinazioni, ma che, a conti fatti, è un unico termine ribadito, ripetuto e rinforzato più e più volte.

Proprio per questo motivo, il componimento di Rizzica non si limita a far vivere al lettore un disagio esistenziale, ma riattiva un disagio che il lettore ha già vissuto.

Al termine della lettura, quando si posa su un piano il coltello che Rizzica ci offre per frugare in noi stessi, ci si domanda cosa sia avanzato sul fondo del vaso… Se, in un certo senso, esista uno scampo, una fuga e un farmaco a questo dolore atavico, viscerale e amniotico.

La risposta a questa domanda resta sospesa proprio perché, per quanto il dolore di ognuno sia simile al dolore di tutti, gli escamotage che ci consentono di superarlo sono espedienti personali.

Rizzica dà così parola al taciuto e al privato (inteso in tutte le sue sfumature semantiche)…

A ciò che, prima di quella speciale deflagrazione espressiva che è una poesia, si credeva insondabile.

Eppure la sofferenza ha sempre una voce che si eleva al di sopra di ogni rantolo.

Questo Rizzica – Angela – lo sa bene.

E, dal canto mio, la ringrazio per averlo ricordato a noi – tutti.

Augusta Castellano

Pan

E come madre sterile

Mi gemma in grembo la sofferenza del mondo.

I miei figli, poveri orfani di un ventre piatto

come la terra

I dolori, progenie di un parto stanco e infecondo.

Eppure, eccoli tutti al mondo.

Do

Apprezzo la purezza di chi,

nel dolore,

non si ammala.

Di me non si è salvato poi molto.

Apro la bocca:

sussurro preghiere.

Si muovono le mani:

incidono anatemi.

Ra

Immensa luce.

Non ti tocco,

non ti sfioro:

ti dilanio.

Ed io mi strappo

nelle urla che

nessuno

sente.

Lascia un Commento