Overflow: il troppo “troppo”

"Queste riflessioni sul mondo abitano la pancia. Sono rumorose e viaggiano a velocità supersonica verso il cervello, percorrendo autostrade affollate, senza limiti di velocità. Si sorpassano tra loro taglienti, senza neanche pagare il pedaggio ai caselli del cuore."

Queste settimane mi scorrono addosso come un fiume in piena, mentre a fatica mi aggrappo a coscienza, conoscenza, scienza e presenza. Giornalmente, questi pensieri liberi associati si delineano, senza riuscire a metter loro un freno: sono osservazioni appuntite sul futuro, sul presente, malapolitica, malasanità, negazionismo, piaghe sociali, ferite genitoriali, difficoltà di relazione, bisogno di consapevolezza, senso di impotenza sociale. 

Queste riflessioni abitano la pancia.

Sono rumorose e viaggiano a velocità supersonica verso il cervello, percorrendo autostrade affollate, senza limiti di velocità. Si sorpassano tra loro taglienti, senza neanche pagare il pedaggio ai caselli del cuore.

Queste grandi vie del sentire sono congestionate dal traffico, come le tangenziali dei grossi nuclei urbani, nelle ore di punta. 

Ho quarant’anni – anzi, quarantuno -, e per attitudine generazionale ho sviluppato la predisposizione a reagire allo stato delle cose con forza e volontà. Alzo, ormai meccanicamente, le maniche della mia giacchetta quasi ogni anno, per reinventare e ridiscutere il concetto del “chisono/dovesono/cosafaccio/cosavogliofare” in un continuum esistenziale.

Oggi però, mio malgrado, percepisco una difficoltà maggiore nel reperire l’energia necessaria alla rifioritura: eppure, se mi fermo a pensare, la generazione ’80 è stata armata dalla sua stessa storia per combattere contro tutto ciò. Indago da giorni, ormai, in ogni meandro della mia formazione e/o esperienza, ma niente.
Trovo solo mucchietti rotolanti di polvere, in ogni angolo.
Questa sensazione di impantanamento evolutivo stride tra i pensieri, come un granello di sabbia tra i denti.

Per quale ragione questa fase del cammino è così paludosamente rumorosa?

Perché non riesco a costruire fino in fondo un pensiero funzionale, prima che questo sia attraversato dal successivo? 

Perché mi ritrovo a non riuscire a reperire uno spartitraffico?

Sembra quasi che i miei pensieri siano diventati più imperfetti e indisciplinati di quanto già non fossero prima. C’è da dire, però, che siamo nel 2020: un anno coriaceo e compatto nella sua tragicità, e sarebbe innaturale non vivere una destabilizzazione in un anno come questo!

Eppure, nonostante abbia ingerito volutamente frammenti di ratio per digerire domande esistenziali e sociali, questi granelli di ragionevolezza si continuano a fermare tra i denti.
E stonano.
Il frastuono dell’autostrada, poi, non placa il suo clamore, e mi disorienta.

Provo a trovare rifugio nella routine zone, forse è meglio.  

Prendo un caffè, leggo un po’, mi distraggo, vago per casa in pigiama e ciabatte, lavo i piatti sporchi, stendo i panni al sole per farli asciugare, prendo un altro caffè, rispondo a qualche WhatsApp, dico la mia, apro i social, scorro su notizie, mi indigno: e mentre in molti cercano colpevoli o altro diverso da sé su cui spargere ulteriore melma fangosa, un termine vagante mi colpisce come uno spigolo al mignolino del piede, e arriva in un battibaleno da pancia a cervello: Overflow.

Overflow óuvëflou› : «traboccamento», dal v. (tooverflow «traboccare», composto di over «oltre, sopra» e (toflow «scorrere» – In informatica, la situazione che si verifica quando viene superata la capacità massima del registro aritmetico di un calcolatore elettronico, cioè quando il risultato dell’operazione impostata è un numero con tante cifre da non poter essere rappresentato.

Questo pavimento appiccicoso in cui sto cercando di camminare, il traffico, i granelli sotto ai denti… Si chiamano così: 

Overflow.

È il troppo che storpia e straripa.

È lo strabordare che non riesce più ad ascriversi in ragionevolezza.

Il dolore, la confusione, l’incertezza, le contraddizioni, le ingiustizie, la destabilizzazione. È tutto talmente troppo, da non essere più contenibile in una sola pancia, in un solo cuore, in un solo cervello. L’overflow è un qualcosa che va oltre i confini del sostenibile, e che va oltre anche allo stesso stato di sopportazione. È come se questo tutto, percepito nell’insieme della sua compattezza, sia talmente troppo, che riesce a sovraccaricare anche i più ampi tra i viali delle coscienze individuali. 

Il primo passo è fatto. La congestione del mio traffico emotivo ha una definizione. Posso finalmente alzare la bandiera dell’overflow. Mi riconosco in lui. Ma il traffico nelle gran vie della coscienza non si placa e produce ulteriori domande scomode.  

Quanto è overflow la vita intorno a me? E come si affronta questo malessere?

Guardo fuori: tutto tracima, trabocca, esplode nella sua cruda realtà. Il tutto, va ben oltre i confini della comprensione. Pandemia, rabbia, morti, economia in ginocchio, futuro compromesso, sanità al collasso, politiche spietatamente individualistiche, mancanza di ideali, personalismi che trasudano inettitudine: 

Fuori da me, vedo overflow di ogni forma e colore.

Ci sono overflow disperati, immobilizzati in uno stato di autocommiserazione da cui non riescono ad uscire. 

Overflow rabbiosi, violenti, urlanti: così concentrati a gridare la propria rabbia (giustificata) che dimenticano di volgersi anche verso il trovare soluzioni, oltre che problemi, rivendicazioni, “vel’avevodettoio”. 

Overflow con gli occhi al passato, che lottano disperatamente per la ricostruzione di vecchie abitudini che difficilmente potranno essere ristabilite. 

Overflow che, non riuscendo a sostenere una realtà così invadente, preferiscono negarla.

Overflow attoniti, che stanno lì, aspettando che tutto passi, in rassegnato silenzio.

Overflow strumentali che, come iene affamate, attendono l’occasione giusta per divorare e strumentalizzare le situazioni a proprio vantaggio.

Overflow maldestramente operosi e produttori di niente: impegnati a dare al popolo brioche, mentre la richiesta è solo di essere sfamati di pane e chiarezza. 

Il troppo è davvero troppo, è ovunque ed è in chiunque. Assume forme e modalità infinite, l’overflow. 

Tutti, nel bene o nel male, lo vivono, declinandone sfumature in mille rivoli e diverse nuance di colore.  La marea collettiva dell’overflow, si infrange nelle paure di ieri, oggi e domani. Ed è proprio quando il suono del traffico impazzito che ho dentro mi allerta con un clacson improvviso, che accade un piccolo miracolo:

Pronuncio a voce alta e scandisco:  O v e r f l o w e mi accorgo che suona come un soffio. 

Le labbra rimangono morbide, accolgono i suoni. Si protendono verso l’esterno, quasi a voler essere mezzo attraverso il quale compensarne il significante.

Non ci avevo pensato.

Il troppo come opportunità da accogliere e far maturare. Il troppo come materia in cui coltivare ed impastare un nuovo assetto. Il troppo da frammentare e ricostruire come un puzzle. Il troppo da affrontare e di cui trovare un nuovo incastro, pezzo dopo pezzo.
Mi scappa da sorridere.
Il mio overflow sembra più morbido, adesso. 

È bastata una piccola spolverata di speranza. 

Percepisco ancora la durezza, la sostanza complessa e molle del mio traffico interiore. Ma d’un tratto il tutto sembra un po’ meno overflow. Il troppo è sempre troppo, è vero. Ma è anche un frammento d’opportunità e di rinascita. La tangenziale pancia-cuore-cervello è ancora in affanno, e le automobili tuttavia sfrecciano veloci. I granelli del troppo sfregano comunque sotto ai denti, ad ogni morso, ed i passi sono ancora collosi.

Ma non voglio smettere di conoscere, riconoscere e vivere il mio overflow.

Voglio sforzarmi di costruire in lui possibilità, e non solo percepirne il dolore appuntito.

E il tuo overflow, che forma ha? Com’è? Che fa?

Parliamone: insieme, forse, ce la possiamo fare a far defluire il traffico.

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