"Già allora mi ero rassegnata all’idea che i tuoi occhi erano delle parentesi, degli incisi brevi che non terminavano mai col mio nome – porte serrate su una serrata interiorità."

Se penso all’amore, penso al modo in cui ti guardavo, mentre eri preso a fare altro.

La tremenda necessità di conservarti inalterato nella mia memoria mi impediva di distrarmi e di concedermi una tregua al tuo pensiero – strazia(to/nte).

Quando ti ho conosciuto, portavo già i capelli corti.

Un’inezia, lo so, eppure, alle volte, ci penso al fatto che prima di te li portassi lunghi, mentre dopo no.

Non ho avuto nulla da strapparmi, quando mi hai detto che no, non c’è storia e che, quindi, no, non c’era nessuna storia tra di noi – tra di noi? Tradii noi, no? Me lo hai detto tu – quindi no, meglio evitare, meglio demarcare: meglio un neutrale “tra me e te”. 

In fondo, hai sempre scelto tu per entrambi ed io e t’ho lasciato fare, succube come ero – come sono – dei tuoi umori.

Mi sono ricostruita a fatica, dopo di te; qua e là mi manca qualche pezzo… per lo più sul petto e sulla nuca.

Un po’ perché qualcuno l’ho perso per strada, un po’ perché qualcuno ce l’hai ancora tu.

Non so se lo sai e non so neppure che ci faresti, se lo sapessi.

Al contrario tuo, io ho custodito a lungo l’affetto scarno che mi hai concesso: il dono semplice di un dio minore – il mio museo insignificante. Un tributo dovuto ché di te, alla fine, ho sempre amato quello che non mi davi; quanto poteva esser(e/ci) e non è stato; la possibilità mutilata di ogni mia realizzazione…

Non te l’ho detto – non te l’ho mai detto, ma le parole mi muoiono ancora in gola, quando mi sei accanto.

Ricordi la sera in cui mi hai sfiorato piano? Ti raccontavo, faccia sporca di pianto, qualcosa che non ricordo più; un’atrocità che la mia testa ha rimosso per salvarsi da sé stessa.

Tu mi ascoltavi, silenzioso, impotente.

Solo allora, incastrata tra le tue dita, ho capito che eri umano quanto me – figlio come sei, come tutti, di una Terra che non c’assomiglia, eppur’è madre.

«Non ti ho mai capito. Tu per me resterai sempre un mistero.» ti ho confessato, prima che scivolassi di fretta fuori dal mio appartamento.

Ti ho guardato andare via con la schiena curva e la testa affacciata alla porta.

Non ti volti mai verso di me; quando te ne vai, non mi guardi mai.

Non lo hai fatto neppure quando mi hai confessato che tu, di amarmi, non eri capace.

«Non si può essere bravi in tutto.» ti ho risposto, stizzita, alzando appena il bavero del cappotto come a proteggermi da un freddo insensato di cui tu eri e resterai complice.

Già allora mi ero rassegnata all’idea che i tuoi occhi erano delle parentesi, degli incisi brevi che non terminavano mai col mio nome – porte serrate su una serrata interiorità.

Non so se troverò mai una consolazione alla tua assenza, alla mia devozione, ai nostri letti separa(t/bil)i.

Non so neppure se pensi mai a me e ai nostri avanzi… alle mie poesie mediocri, alle nostre parole abusate, al tuo profumo che ho ancora addosso, come un pensiero fisso.

Lo emanano in tanti, il tuo odore, a zaffate; una barbarie che mi trascina fino a te anche quando non vorrei, anche quando mi faccio i fatti miei e tu non sei neppure nelle retrovie della mia mente.

E invece eccoti arrivare in particelle trasdotte dal mio olfatto in immagini frammentate, in ricordi sparsi, in espressioni che non uso neppure più da quando ho smesso di amarti.

Non so se mi manchi sul serio o solo per noia; non so come sia la tua vita ora – se di vita ce n’è ancora -; o se, come me, ti trascini in te stesso, nel traffico quotidiano e terribile… sotto una pioggia che, nel suo scrosciare, parla ancora di noi.

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