Non sei sola: la mia battaglia contro la bulimia

"Sapevo quando dovevo mangiare, quanto dovevo mangiare, quando dovevo stare male, quanto doveva durare la mia sofferenza, quando stavo male per gli altri. E lei, mi appoggiava sempre."

Sono Erika, ho 22 anni. Mi sono appena laureata.

Brava, direte voi, una laurea in tre anni, cosa pretendi di più, c’è chi a questa età non sa nemmeno cosa vuole fare, o chi vuole diventare.
Sì, avreste ragione, ma non è tutto così semplice.

 Iniziamo dal principio.

Sono nata il 7 Giugno del 1999, un grande giorno di gloria. Già negli anni successivi, tanto, mi sarei comunque sentita invisibile. Avere un fratello come il mio non rendeva le cose semplici, iperattivo, combina guai, ci teneva a stare sempre al centro dell’attenzione.
E io? Io intanto rimanevo la più piccola e la più invisibile.

Continuando a crescere pensai che le cose sarebbero cambiate.
Iniziai le scuole elementari, ma rimasi all’ombra della mia migliore amica.
Iniziai le scuole medie, ma rimasi all’ombra della mia nuova migliore amica.
Iniziai le scuole superiori ma rimasi all’ombra di tante altre amiche.

Fu alle superiori che capii che essendo ormai attribuita a una “fascia intermedia” da insegnanti e compagni, non avrei potuto più cambiare il mio status.
Aspettai, semplicemente, di finire questo percorso.

In famiglia, intanto, continuavo ad essere la più piccola, la ragazzina carina che non dava fastidio perché stava in silenzio e in disparte. Nessuno pensava allora che sarei stata la prima laureata in famiglia, che sarei riuscita ad inseguire i miei sogni, che sarei stata più forte di quello che tutti avrebbero mai pensato. Nonostante tutto.

Passarono gli anni, diventai sempre più invisibile, iniziai a pensare di non essere abbastanza intelligente o perspicace perché qualcuno mi ascoltasse, o pensasse che le mie parole avessero valore.
Sicuramente il mio carattere introverso non aiutò, ieri come oggi.

Così la ragazzina carina e gentile diventava sempre più dura con gli altri, ma soprattutto con se stessa.

Arrivai all’università e mi ripromisi di non fare più lo stesso errore, mi ripromisi di mostrarmi sicura, di mettermi in gioco.
Le mie nuove amiche mi ascoltavano, mi chiedevano come andassero gli studi, la mia vita.
Pensai che fosse tutto cambiato, che fossi riuscita a mantenere la promessa che mi ero fatta: ribaltare il mio status.

Ero riuscita a mostrarmi più sicura di me stessa.
Mi sentivo felice.
E mentre ero impegnata a mostrare agli altri la mia felicità, il mio corpo stava scomparendo.
Mi sentivo andare mentalmente a mille e fisicamente lentissima.
Iniziai a dimagrire molto, ricominciai a soffrire, ma questa volta in modo molto più intenso.

Nonostante sapessi di non stare bene, avevo ormai deciso che non potevo fermarmi, mai avrei potuto farlo.
Mi ero ripromessa che questa volta sarebbe stato tutto diverso. Questa volta dovevo farcela, non mi interessava mangiare, non mi interessava dormire o uscire di casa.
Io avrei dimostrato a tutti quelli che pensavano che fossi una persona mediocre che ce l’avrei fatta, che ero così intelligente, così perspicace, così forte.

Tre anni di inferno.
Tre anni in cui il fondo non aveva mai fine.
Pensavo ora basta devo cambiare ma, alla fine, non cambiavo mai.

Dimagrii molto.
Le persone vicino a me erano già spaventate per il mio repentino cambio fisico, non mangiavo quasi mai, facevo passeggiate che duravano anche 20 km se lo ritenevo necessario per sentirmi meglio.

Dopo continue restrizioni, passai a essere bulimica.
I problemi aumentavano: al livello sociale, quando soffri di bulimia non puoi cenare con gli altri, non puoi uscire con altre persone, ti senti sempre inadeguata.

Persi molte amicizie in quei mesi; ricordo che non riuscivo nemmeno a togliermi il pigiama. Provare i vestiti per me era una vera e propria prova e io il coraggio di affrontarla non lo avevo.
Quando facevo la doccia dovevo coprire lo specchio. Odiavo me stessa e il mio corpo.

In famiglia era diventato tutto molto complesso: i miei genitori e mio fratello erano molto preoccupati, spaventati anche.
Non sapevano come parlarmi o cosa dirmi, era una situazione nuova per tutti e in quel momento, in cui vedevo tutto nero, mi sentivo solo giudicata da loro.

Avevo una grande confusione dentro.
Non sapevo più a chi attribuire la colpa, se non a me stessa.
Ero molto rigida, le mie giornate erano costruite da programmi ben precisi e se qualcosa andava storto io mi sentivo male, così male che l’ansia aumentava, la voglia di abbuffarmi aumentava, il mio bisogno di svuotarmi aumentava.

Mi chiedevo spesso perché non potessi vivere normalmente come gli altri. E quando non trovavo risposta alle mie domande aumentavano l’angoscia, la vergogna, i sensi di colpa, la paura di rimanere sola.
L’unica cosa che mi faceva stare bene era sentirmi vuota, mentalmente e fisicamente.
Più ero vuota, più mi sentivo leggera, più pensavo di star bene: un rinforzo positivo che mi permetteva di affrontare la giornata.

E così continuavo a rimanere sempre più sola.
Iniziai poco dopo ad avere problemi di salute, l’amenorrea che perdura, stanchezza continua, freddo anche d’estate, attacchi di panico, insonnia e continue irritazioni e sfoghi sulla pelle.

Incominciai a chiedermi perché dovessi soffrire così tanto, perché gli altri potevano stare bene ed io no.
Sentivo come se stessi portando un masso sulle spalle, un masso di sensi di colpa che non riuscivo a lasciare andare via.

Sinceramente ancora non so quale sia la risposta alle mie domande, ma da una profonda riflessione su me stessa, dalle storie lette di altre ragazze che stavano vivendo il mio stesso disagio, dal dolore immenso che stavo procurando a me e alla mia famiglia, capii che era il momento di essere lucida dopo tanto tempo.

Dopo quasi quattro anni di sofferenza ho capito.
Non era mio fratello a mettermi in ombra, non erano le mie amiche, non era la mia famiglia.
Ero io. Ero solamente io.
Certo, sono stata sottovalutata spesso, ma io sono stata e sono ancora il mio giudice più severo.
Alla fine la mia ombra mi ha travolta.
La mia ombra, la bulimia, era diventata la mia migliore amica.
La ascoltavo e non ero mai sola.
Sapevo quando dovevo mangiare, quanto dovevo mangiare, quando dovevo stare male, quanto doveva durare la mia sofferenza, quando stavo male per gli altri. E lei, mi appoggiava sempre. Era presente, a differenza di tutti gli altri.
Lei mi amava mentre gli altri volevano farmi del male.

Potreste pensare che adesso io odi la mia ombra, la mia malattia.
E invece ringrazio la mia ombra, la ringrazio infinitamente, perché senza di lei tutta la mia sofferenza non sarebbe mai emersa.
Era diventato più importante riscattarmi, ora non so più da chi o da cosa. Forse da me stessa.

Pensavo di essere diventata completamente sola, ma in realtà devo ringraziare tutte le mie amiche, che mi hanno risollevato continuamente dal mio buco nero, la mia famiglia che mi ha dato la forza di chiedere aiuto.

Quando ti ammali non vedi mai ciò che ti accade lucidamente e razionalmente. Adesso, proprio adesso, mi ritengo molto fortunata.
Perché alla fine, durante questo lungo e sofferto percorso, non sono mai realmente rimasta sola, per quanto io avessi una dispercezione della realtà.

Ho odiato per anni la mia sensibilità, le mie fragilità.
E ora che ho deciso di scoprire chi sono veramente, le amo come non mai.
Ora penso al presente, non più al futuro. Ora sto imparando ad accettare la mia malattia, a darmi tempo e spazio per poterla superare.
Ora so che non devo avere sensi di colpa per chi sono e chi voglio essere. Ora ho capito che non sono più la mia ombra, che quest’ombra sta scomparendo.

Una delle cose che mi ha salvato è stata vedere sui social, soprattutto nei due anni di restrizioni che abbiamo vissuto, tante persone che stavano come me: che si raccontavano, si confrontavano, non si vergognavano del loro passato.
Non ero sola, non ero sbagliata.

Oggi sto ancora combattendo, vivo con molti alti e bassi, ma so per certo che con me c’è un’armata che è pronta a guardarmi le spalle.
Ed è questo a darmi speranza, a farmi sentire amata dopo anni in cui mi sentivo invisibile e non apprezzata; che mi dà la forza di continuare questo percorso di guarigione.

So cosa significa sentirsi incompresi, per cui ricordatevi che non siete sole/i: tutti soffriamo, non dobbiamo negarlo o vergognarci delle nostre debolezze, perché potrebbero diventare dei grandi punti di forza.
Se io non avessi accettato me, la mia malattia, i miei limiti, ora non starei meglio, non avrei chiesto aiuto, non mi sarei data una possibilità di vivere veramente.

Perciò, grazie ombra per avermi ricordato che posso farcela.
Ora sto imparando a essere felice.

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