Non è resistenza: è strumentalizzazione

“Nel frattempo, la guerra va avanti da un mese. Si dirà, con fare di maestosa eroicità, che l’Ucraina resiste. Quante volte lo stesso presidente Zelensky ha invocato la memoria storica della resistenza? Eppure, temo tristemente che questa memoria venga sempre più spesso strumentalizzata e fatta rivivere per scopi impropri.”

          Ma questi vogliono solo urlare
Alzare le casse e fare rumore
Fuori dal torto e dalla ragione
Branco di cani senza padrone
Che fanno finta di non vedere
Che fanno finta di non sapere
Che si parla di uomini, qui
Di donne e di uomini…

«Indico in primo luogo come inclinazione generale dell’umanità un perpetuo e irrequieto desiderio di potere dopo potere, che cessa solo in morte.»

Così scrive Thomas Hobbes nel Leviatano, una delle massime espressioni del realismo politico. Ho sempre trovato affascinante la logica quasi ineccepibile con cui il teorico del bellum omnium contra omnes costruisce il suo impianto teorico. Ho sempre trovato stupefacente come alcuni dei suoi postulati siano ancora estremamente attuali o attualizzabili.

Tra questi vi è sicuramente il concetto dello stato di natura, uno stato di guerra continuo, una lotta alla sopravvivenza, uno stato di diffidenza e di aggressività reciproca: una condizione di homo homini lupus

Ebbene, alla stregua delle ultime settimane, possiamo lecitamente domandarci se il diritto internazionale non assomigli ancora, drammaticamente, allo stato di natura hobbesiano. Una guerra di tutti contro tutti, in cui vige incontrastato il potere del più forte.

Da quando lo scorso 24 febbraio la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina di Zelensky, anche la militarizzazione del discorso pubblico ha subito una preoccupante escalation. La coscienza politica del nostro paese ha deciso che sì, il nemico andava stigmatizzato, tagliato fuori, combattuto… E ha indossato l’elmetto per scendere in guerra.

Come si potrebbe spiegare altrimenti la decisione di fornire armi all’Ucraina? L’alto rappresentante della Politica estera dell’UE, Josep Borrell, sconosciuto ai più fino a qualche giorno fa, ha dichiarato che “Armeremo le forze ucraine per sostenerle nella loro eroica battaglia”.

Mario Draghi, nella sua comunicazione alle Camere del 1° marzo, ha addirittura affermato che “La minaccia portata oggi dalla Russia è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo mai fatto finora”. Una nuova corsa agli armamenti, dunque, mentre il monito delle parole sancite nell’articolo 11 della nostra Costituzione, “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, rimbomba nel vuoto.

Qualcuno si è perfino stupito di aver rintracciato l’Italia nella lista dei “paesi ostili” stilata da Putin, non sapendo probabilmente che la legge italiana sulla neutralità (regio decreto n. 1415 del 1938, All. B, art. 8) vieta di fornire armi ai paesi in guerra.

La ragione è semplice: chi fornisce armi a un paese in guerra partecipa al conflitto e quindi non può essere più considerato neutrale. Siamo, a tutti gli effetti, un paese belligerante.

Sono già decine i voli effettuati dall’aeronautica militare italiana in direzione della base polacca di Rzeszow, dove avviene lo smistamento verso il fronte, ma conoscerne l’esatto carico ci è impedito dalla decisione governativa di imporre il segreto sui decreti interministeriali che individuano tipologia e quantità di equipaggiamenti destinati agli ucraini.

Nel frattempo, la guerra va avanti da un mese. Si dirà, con fare di maestosa eroicità, che l’Ucraina resiste. Quante volte lo stesso presidente Zelensky ha invocato la memoria storica della Resistenza? Eppure, temo tristemente che questa memoria venga sempre più spesso strumentalizzata e fatta rivivere per scopi impropri.

Quando, reduci dalle macerie di un secolo di guerre, si tentò di ricostruire il mondo, lo si fece sotto il segno delle dichiarazioni universali dei diritti, del costituzionalismo, con un unico obiettivo: scrivere a grandi lettere le parole “Mai più”: mai più violenze, mai più morti, mai più il sacrificio di vite umane in nome di un ideale.

È proprio avendo a cuore tale memoria che mi vengono i brividi sentendo una parte o l’altra – indifferentemente– anche solo ipotizzare la possibilità di una terza guerra mondiale. Oppure se penso che lo scorso 16 marzo, la Camera del Parlamento italiano, quasi all’unanimità, ha approvato un ordine del giorno che impegnava il governo a elevare, entro il 2024, le spese per la difesa sino al 2% del PIL.

È davvero questa la resistenza? O, al contrario, sarebbe non cedere alla retorica subdola della chiamata alle armi e rifiutare l’arte della guerra?

Perché si, la guerra è sicuramente un’arte, ma lo è ancor di più quella della pace, la straordinaria capacità di costruire ponti laddove il potere tenta di erigere muri. E se il richiamo al pacifismo può sembrare troppo debole, mi appello al sempre valido realismo politico e ad Hobbes, che più di tutti gli altri filosofi politici ci insegna che gli Stati nascono al fine di proteggere la vita degli esseri umani e si giustificano nella misura in cui effettivamente lo fanno.

…E mentre il mio cuore trabocca d’amore
All’orizzonte c′è un sole che muore
Stretto fra il cielo e la linea del mare
Rosso di rabbia non vuole annegare
Al soffio del vento
Che un tempo portava il polline al fiore
Ora porta spavento
Spavento e dolore”

(Brunori Sas, Al di là dell’amore)

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