Non abbiamo salvato Regeni, salviamo Zaky

"Così si spiega (e di certo vi sono altri punti che ignoro) come sia possibile che il nostro Paese non pretenda delle risposte immediate e definitive sulle infamie commesse dal governo di al-Sisi verso i nostri fratelli e migliaia di altri innocenti. E tutto questo è vergognoso."

Altri 45 giorni di carcere preventivo.
Altre sei settimane di custodia cautelare.
Altre sei, minimo.

Così continua la triste vicenda di Patrick Zaky, giovane ricercatore egiziano, studente presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Il 7 febbraio scorso era volato in Egitto dall’Italia per qualche giorno di vacanza, ma il ritorno a casa ha da subito avuto un amaro epilogo: Patrick viene arrestato il giorno stesso con l’accusa di propaganda sovversiva (nel dettaglio, “diffusione di notizie false, incitamento alla protesta e istigazione alla violenza e a crimini terroristici”) nei confronti del governo di Abdel Fattah al-Sisi e sbattuto nel carcere di Tora, ubicato a sud del Cairo, in cui si trova da ormai 304 giorni.

Una cospirazione, quella imputatagli, carente di qualsiasi tipo di prova concreta, e che si basa su una decina di post su Facebook.
Sì, avete letto bene: dei semplici post su un social media, per di più di un profilo che i legali di Zaky denunciano come ‘fake‘, ma che il governo egiziano considera (manco a dirlo) reale e affidabile.

Nell’opinione di chi scrive, nulla è più falso: i fallimentari tentativi del regime di al-Sisi di creare finte prove e palesi messe in scena per depistare gli scempi commessi da polizia e servizi segreti egiziani sono un insulto all’intelligenza, oltre che una totale mancanza di rispetto nei confronti della giustizia internazionale.

Già nella vicenda Regeni, il regime aveva imputato il rapimento, la tortura e infine l’omicidio del giovane ricercatore italiano a una banda di ladri egiziani che erano soliti rapinare cittadini stranieri, basandosi sul fatto che i documenti di Giulio fossero stati ritrovati, a seguito di un blitz di alcuni agenti, in un’abitazione collegata a questi presunti criminali.
Et voilà, caso risolto. In questo modo l’Egitto offrì un alibi agli agenti con le mani sporche di sangue, coprendo i reali assassini, tramite un depistaggio così plateale da non poter nemmeno sembrare credibile.

Eppure, nonostante l’evidenza della presa in giro, sono quasi cinque anni che si invoca a gran voce la verità per Giulio, e non la si ottiene. Anche se la verità la conosciamo tutti, anche se ognuno di noi sa com’è andata, questa verità oggettiva potrebbe non arrivare mai.

Giulio Regeni e Patrick Zaky non sono le prime vittime della paranoica malvagità di al-Sisi e di sicuro, purtroppo, nemmeno le ultime.
Sono oltre sessantamila i detenuti politici nemici del regime del presidente egiziano, un numero brutale di persone incarcerate per fare piazza pulita di chiunque mostri divergenze con le opinioni retrograde e illegali del generale.

Al-Sisi ha a cuore soltanto sé stesso e il potere, ottenuto grazie a un colpo di stato nel 2013. Da quel luglio di sette anni fa, il generale calpesta quotidianamente i diritti umani, imprigionando e condannando alla pena capitale chiunque non condivida le opinioni del regime.

L’Egitto è il terzo paese al mondo per condanne a morte.
L’anno scorso, circa sei condanne a morte su dieci a livello globale sono state emesse proprio lì: stiamo parlando di una sentenza di pena capitale ogni quindici ore, per intenderci.
Questi numeri, così barbaramente raccapriccianti, fanno riferimento esclusivo ai dati ufficiali; resta solo alla nostra immaginazione pensare a quanti altri innocenti siano morti in agonia nelle carceri egiziane, lontano dai riflettori, dopo essere stati rinchiusi in bugigattoli in condizioni disumane o in seguito a terribili torture per estorcere false confessioni utili al regime.

Tutto questo nell’incomprensibile indifferenza generale dell’Occidente e del mondo intero, che continua a considerare al-Sisi un interlocutore legittimo.

Ma è veramente così inspiegabile l’impassibilità della comunità internazionale di fronte ai soprusi che giornalmente si consumano nella terra dei Faraoni?
Sfortunatamente no, non lo è: l’Egitto è un partner fondamentale nelle relazioni commerciali, ad esempio, con moltissimi stati europei.

Giusto stamattina, al-Sisi è atterrato a Parigi per una visita di tre giorni, accolto in pompa magna da Emmanuel Macron.
Il presidente francese ha subito smorzato i toni parlando di ‘segnale positivo’, in riferimento alla scarcerazione, da parte dell’Egitto, di tre dirigenti della ONG di Zaky (ma non esponendosi su Zaky stesso); scarcerazione che, tra l’altro, è avvenuta a seguito dell’appello dell’attrice Scarlett Johansson, che dimostra come l’assenza di conflitto d’interessi possa essere una strada tanto efficace quanto utopistica per raggiungere degli obiettivi tangibili.

Macron dice che sì, parlerà anche dei ‘disaccordi’ in materia di diritti umani, ma che non avrebbe senso boicottare la collaborazione con un efficace partner nella lotta al terrorismo.
Come se urinare addosso ai diritti umani fosse meno grave di lasciar proliferare il terrorismo.
Come se incarcerare ingiustamente, torturare e uccidere non fossero terrorismo di per sé.

Ma sfortunatamente gli interessi economici prevaricano ogni aspetto della politica, soprattutto quella nostrana.
Per quanto riguarda le relazioni con l’Italia, l’Egitto è il maggior acquirente dell’industria bellica italiana. Dalla triste vicenda Regeni, negli ultimi quattro anni le vendite di materiale militare all’Egitto sono più che centuplicate, nonostante in Italia vi sia una legge ventennale che impedisca di vendere armamenti a stati responsabili di violazioni dei diritti umani.
Un altro aspetto fondamentale che unisce Italia e Egitto è quello energetico: il Mediterraneo egiziano è un’enorme fonte di gas che darebbe al nostro Belpaese un ruolo da protagonista nell’approvvigionamento di energia a livello europeo.
A questo aggiungiamo il volersi “tener buono” un alleato nel Mediterraneo contro Erdogan, e il quadro è subito più chiaro.

Così si spiega (e di certo vi sono altri punti che ignoro) come sia possibile che il nostro Paese non pretenda delle risposte immediate e definitive sulle infamie commesse dal governo di al-Sisi verso i nostri fratelli e migliaia di altri innocenti. E tutto questo è vergognoso.

Quando sento dire che ciò che è successo a Giulio o a Patrick potrebbe accadere a ognuno di noi, mi sento particolarmente chiamato in causa.

Poco più di due anni fa mi è stato offerto un lavoro come fotografo in Egitto e mi ci sono fiondato, a dispetto degli avvenimenti che nel 2016 avevano portato all’uccisione di Giulio Regeni.
La mia sete di conoscenza superava di gran lunga il mio timore. Ignoravo cosa succedesse realmente sulle sponde del Nilo, perché non ritenevo possibile che ciò che era accaduto a Giulio potesse essere il modus operandi del regime in ogni aspetto della vita quotidiana. “Deve essere stata opera di qualche fanatico”, pensavo tra me e me.

Ma non mi ci volle molto per realizzare che l’arbitrarietà delle scelte di al-Sisi permeava ogni aspetto della vita dei suoi abitanti; che la noncuranza dei diritti umani era capillarizzata dalla folla del Cairo ai minuscoli paesi sommersi dall’immondizia e dalla polvere, come Kafr el-Sheikh e Toukh; che polizia ed esercito avevano il potere di decidere se una sera saresti tornato a casa oppure no.

È capitato spesso che mi venisse chiesto dai gendarmi quale fosse il motivo della mia permanenza in Egitto, per chi lavorassi, quando sarei andato via da lì.
La fotocamera appesa al collo puzzava loro di una curiosità che non avrebbe dovuto valicare determinati limiti.
Mi è stato ordinato più volte di mostrare le foto che avevo scattato, direttamente dalla macchina fotografica; i poliziotti più gentili mi avevano anche fatto dei complimenti, chiedendomi però di cancellare parte del materiale.

Sono stato fatto scendere da un autobus alle 3 del mattino mentre raggiungevo il Sinai per scalarlo, e sono stato perquisito perché nella lista dei passeggeri del bus io risultavo essere “l’italiano”.
Ho assistito alla paura delle persone nell’esprimere il loro dissenso verso il regime, perfino parlando sottovoce in un bar o facendo due passi per strada.
Ho conosciuto ragazzi che mi hanno raccontato di come hanno perso degli amici e familiari nella rivoluzione del 2011, e di come quei sacrifici siano stati vani.
Molti mi hanno chiesto di aiutarli a procurarsi un visto per andarsene, per provare a sottrarsi all’occhio del Grande Fratello e iniziare una nuova vita, in libertà.
E la lista potrebbe continuare.

Col senno di poi, mi ritengo un privilegiato per aver trascorso sei mesi in quel paese splendido e al contempo così controverso, e per essere qui a raccontarlo.
Perché è vero: ognuno di noi potrebbe essere Patrick; ognuno potrebbe essere Giulio.

Per questo non dobbiamo stancarci di pretendere la verità.
Nonostante sia palese, dobbiamo pretenderla in maniera ufficiale.
Questo è ciò che meritano le vittime dei soprusi del regime: verità e rispetto.

Si dice che la speranza è l’ultima a morire, ma non fino a quando ci sarà di mezzo al-Sisi.

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