Atene, 480 a.C.
Dopo aver cacciato gli invasori persiani, gli ateniesi cominciarono a riedificare, sotto la guida di Pericle, tutto ciò che i persiani avevano distrutto. I templi sull’Acropoli e l’altura sacra della città erano stati incendiati e saccheggiati e dovevano essere ricostruiti in marmo, con uno splendore e una maestosità senza precedenti.
Questo è proprio il periodo in cui il popolo greco incominciò a contestare le antiche tradizioni e leggende sugli dei e, in modo molto spregiudicato per il tempo, iniziò anche ad indagare sulla natura delle cose. Questa è l’epoca in cui sorsero e si svilupparono la scienza, nel senso che oggi si attribuisce a questo termine, e la filosofia.
Ma non dobbiamo immaginare, tuttavia, che gli artisti appartenessero, già in quei tempi, al ceto intellettuale urbano: ateniesi ricchi che amministravano gli affari della loro città e trascorrevano il loro tempo nell’agorà in interminabili discussioni e, forse, anche i poeti e i filosofi, i quali spesso consideravano gli scultori e i pittori come persone inferiori.
Gli artisti lavoravano con le mani per guadagnarsi da vivere, sedevano nelle botteghe coperti di sudore e di sudiciume, faticavano come comuni manovali e, perciò, non venivano considerati membri di diritto della buona società greca.
Ma Pericle non era uno snob.
A quanto narrano gli scrittori antichi, egli trattava gli artisti del tempo come suoi pari.
L’uomo al quale affidò il progetto dei templi era l’architetto Iktinos e lo scultore che ebbe il compito di foggiare le immagini degli dei e di sovrintendere alla decorazione dei templi era il suo amico Fidia.
Talmente amico di Pericle che, per attaccare quest’ultimo, accusato di tirannide da una parte della società ateniese del tempo, fu incriminato con l’accusa di essersi impadronito di una parte dell’oro destinato alla statua di Atena Parthenos (“Atena la vergine”), destinata al Partenone.
Riuscito a scagionarsi facendo pesare il metallo prezioso impiegato per le vesti della dea e dimostrato di aver usato esattamente la quantità ricevuta, venne nuovamente accusato (ingiustamente) di empietà, per aver raffigurato sé stesso sullo scudo della dea Atena.
Questa volta, però, venne gettato in carcere dove morirà l’anno successivo, probabilmente avvelenato.
La magnifica statua di Atena Parthenos, la quarta meraviglia del mondo antico, purtroppo non ci è giunta.
Ma, in base alla descrizione di Pausania, la dobbiamo immaginare come una gigantesca opera alta quasi 13 metri, completamente ricoperta di materiale prezioso, dall’oro all’avorio, ove abbondavano i colori vivaci e splendenti dello scudo e in altre parti dell’armatura, mentre gli occhi erano fatti di gemme scintillanti. Alcuni grifi si levavano sull’elmo d’oro della dea, e gli occhi di un enorme serpente arrotolato nell’interno dello scudo erano, indubbiamente, anch’essi di vivide pietre.
Colui che, entrando nel tempio, si trovava improvvisamente di fronte questa gigantesca statua doveva provare un arcano timore. Perché l’Atena di Fidia era più di un semplice idolo (o demone, secondo la tradizione cristiana successiva): tutte le testimonianze parlano della sua maestosità, che ispirava ai fedeli un’idea del tutto diversa del carattere e del significato degli dei.
L’Atena Parthenos era un essere umano sublimato: la sua potenza non derivava dagli incantesimi, ma dalla bellezza.
E, anche i suoi oppositori, si rendevano conto che l’arte di Fidia aveva ispirato una nuova concezione del divino.
Atene, 1811.
Gli anni passarono e anche Pericle, Fidia, unitamente ai loro sostenitori e ai loro detrattori diventarono polvere.
Un po’ come la Grecia classica e la sua cultura.
Già nella tarda antichità il colonnato interno e il tetto del Partenone andarono distrutti e, intorno al 590 d.C., esso venne convertito in chiesa cristiana, diventando la quarta destinazione più importante di pellegrinaggio cristiano nell’Impero Bizantino, dopo Costantinopoli, Efeso e Tessalonica.
Nel 1456 i Turchi Ottomani invasero Atene e assediarono, fino al giugno del 1458, un contingente fiorentino che difendeva l’Acropoli. Presa l’attuale capitale, dieci anni dopo, il Partenone divenne moschea e, dal 1670, anche gli stranieri vi ebbero nuovamente accesso, ovviamente per soli motivi di interesse storico-artistico, nonché di studio. Tralasciando la triste parentesi dei veneziani del 1687, i quali, sbagliando mira, anziché colpire la polveriera del Sultano, presero il Partenone (in pieno) a cannonate.
Se vi capita di passeggiare sotto l’Acropoli, di lato al Partenone, e vedendo il grande squarcio sul fianco, potete tranquillamente dire, magari indicandolo col dito in lontananza, «Ah sì, quelli sono stati i veneziani».
Ma torniamo a noi e concentriamoci su un personaggio.
Thomas Bruce, VII conte di Elgin, era un illustre esponente della nobiltà scozzese, ambasciatore britannico presso il Sultano di Costantinopoli.
Tra il 1799 e il 1803 intraprese un viaggio in Grecia, al fine di acquisire opere d’arte per il proprio governo e per impedire alla Francia di monopolizzare il mercato dell’arte: alcuni ritengono che Lord Elgin agisse su incarico del governo britannico, altri ritengono invece che l’iniziativa fosse totalmente sua.
Una volta giunto ad Atene, Elgin aveva un pericoloso rivale, il vice-console francese Louis-François-Sébastien Fauvel che, agendo su incarico dell’ambasciatore francese, stava allestendo un museo privato, con destinazione Parigi.
La situazione, tuttavia, si presentò favorevole per Elgin, in quanto Fauvel venne arrestato dai Turchi. Probabilmente su suggerimento di Elgin stesso, per avere campo libero.
E così, nell’anno 1800, si fece rilasciare dalle autorità turche ad Atene il permesso per effettuare alcuni sopralluoghi sull’Acropoli, unicamente al fine di effettuare rilievi, disegni e calchi, ma andando ben oltre i limiti imposti dalle autorità.
Tanto fece, tanto disse, tanto rimase che, nel 1811, riuscì ad ottenere dalla Sublime Porta, l’organo che governava la Grecia, il permesso di prendere 17 statue dai due frontoni, 15 metope raffiguranti le battaglie tra Lapiti e Centauri e 75 metri del fregio interno del tempio: più della metà della decorazione dell’intera Acropoli.
Non contento di quanto ottenuto, decise di portar con sé anche l’Eretteo, ma riuscì a smontare una sola Cariatide (che ancora oggi è al British Museum).
La cittadinanza di Atene si ribellò e fece giustizia.
L’Eretteo, oggi, è ancora lì sull’Acropoli, bello e splendente, cangiante in base alla luce che gli si riflette addosso.
Londra, 1811.
In fin dei conti, Lord Elgin era sempre stato un personaggio un po’ discutibile.
Adoperando le parole di Sir John Newport, «the Honourable Lord has taken advantage of the most unjustifiable means and has committed the most flagrant pillages. It was, it seems, fatal that a representative of our country loot those objects that the Turks and other barbarians had considered sacred».
«L’onorevole lord ha approfittato dei mezzi più ingiustificati e ha commesso i saccheggi più flagranti. Appare inaccettabile che un rappresentante del nostro Paese abbia saccheggiato quegli oggetti che i Turchi e altri barbari avevano considerato sacri».
Lo scrittore Edward D. Clarke, che assistette alla rimozione delle metope, chiamò quel gesto una “spoliazione” e affermò che, in tal modo, il tempio subì un danno maggiore di quello infertogli dall’artiglieria veneziana e che non ci fu operaio che si oppose all’impresa di rimozione dei marmi.
Tranne il pittore Haydon e pochi altri, il gesto di Elgin provocò lo sdegno di gran parte dell’opinione pubblica inglese.
Elgin non badò a spese in questa sua azione, che dovette portare a termine con denari propri (e del facoltoso consuocero), contraendo debiti che la vendita dei reperti al British Museum non coprì che molto parzialmente, poiché a fronte delle £ 90.000 impiegate ne ricavò solo £ 35.000, nonostante figure del calibro di Antonio Canova stimassero il valore di quei reperti in almeno £ 100.000 (pur condannandone il gesto).
Ma le accuse mosse contro di lui, in particolare quelle più feroci di Byron e dei suoi seguaci, non gli avevano reso un buon servizio, e Lord Elgin fu costretto ad accettare l’offerta al ribasso del Museo, all’esito di un lungo dibattito parlamentare (82 voti favorevoli e 30 contrari).
Da allora sono esposti al British Museum, nonostante le proteste greche.
Atene, 2 Giugno 2022.
Viva l’Italia libera, democratica e repubblicana.
Se poi cade di giovedì ancor meglio.
Io non amo il caldo (per usare un eufemismo) e faceva molto caldo. Non sono solito portare cappelli (sempre per usare un altro eufemismo) tranne quando c’è il rischio di un’insolazione sicura. A volte nemmeno in quest’ultima occasione. Tra un litro d’acqua e l’altro per combattere l’afa, leggo sul giornale che stava arrivando ad Atene lo stato maggiore del Ministero della Cultura italiano per restituire, alla Grecia, un frammento del Partenone finora conservato al “Salinas” di Palermo, il Museo Archeologico del capoluogo siciliano: si tratta di un frammento del fregio occidentale del Partenone, che raffigura il piede di Artemide, la dea della caccia, seduta in trono.
A dire il vero, non sapevo neppure che il “Salinas” lo avesse.
Leggendo successivamente, ho scoperto che questo reperto è andato sotto il nome di “Reperto Fagan”, dal nome del console inglese Robert Fagan che lo acquisì in circostanze non del tutto chiarite.
Toh, guarda certe volte che combinazione!
Una volta giunto ad Atene, a partire dallo scorso 4 Giugno, il frammento è visibile nel nuovo Museo dell’Acropoli.
Non nego un po’ di delusione: non per la restituzione, anzi, al contrario, ma per aver visitato quel Museo solo il giorno prima. E, forse, è proprio questo il motivo per cui sto scrivendo questo articolo.
Sapevo però che, pochi giorni prima, anche un po’ a sorpresa, il Governo Johnson aveva aperto alla Grecia per la restituzione dei Marmi Elgin. Oltre 200 anni dopo le prime rimostranze.
Atene/Londra, passando per l’Italia, prossimo futuro.
A breve si occuperanno delle trattative, sotto il controllo e l’aiuto dell’Unesco, il sottosegretario alla Cultura britannico, Lord Parkinson, e la sua controparte greca, Lina Mendoni (che, in ogni sua intervista, continua ancora a chiamare Elgin «ladro seriale»). Al centro del confronto ci sarà la proposta del Premier greco Mitsotakis: le sculture torneranno ad Atene sulla base di un prestito a lungo termine e, in cambio, a Londra andranno alcune opere d’arte antica ora conservate in Grecia.
Ma la situazione, a dire il vero, non sembra semplice: dalla documentazione inglese emerge come il Governo britannico continui ancora a sostenere che la decisione della restituzione dei marmi spetti al British Museum, in quanto custode delle opere, mentre, di contro, il Museo londinese sostiene che debba essere il Parlamento a dover promulgare un Decreto che metta fine alla disputa.
Allo stato attuale, sembra un gioco con lo scopo di rallentare le trattative e lasciare la questione senza un’effettiva soluzione. Ma le pressioni greche sono molto pressanti, tanto che potrebbe addirittura intervenire Johnson. Sempre che non venga sfiduciato prima dal Partito Conservatore.
Quello che non va dimenticato, però, è che Boris Johnson, da studente universitario, era presidente della Oxford Union, la società di dibattiti dell’università inglese che appoggiava fermamente una mozione che chiedeva la restituzione ad Atene delle sculture.
Alla fine del secolo scorso, nel 1998, l’istituto Ipsos MORI ha effettuato un sondaggio con la domanda: «Se ci fosse un referendum sull’opportunità o meno che i marmi di Elgin siano restituiti alla Grecia, come voterebbe?». Le risposte, tra la popolazione inglese adulta, sono state: 40% a favore della restituzione, 15% a favore del loro del mantenimento a Londra, il 18% non si sarebbe recato alle urne, il 27% non sapeva.
Quindi, in caso di referendum, considerando le risposte dei soli sicuri, la restituzione avrebbe vinto con il 73%, contro il solo 27% che avrebbe votato per il mantenimento a Londra.
Quant’è vero che, spesso, i rappresentati hanno più spina dorsale dei propri rappresentanti.
Questa è un’operazione che deve essere compiuta per motivi sia morali che artistici: sono completamente inutili elementi organici, sparsi per il mondo, che rimangono senza la coesione, l’omogeneità e il contesto storico del monumento a cui appartengono.
La coesistenza di tutti i frammenti rimanenti dei marmi del Partenone, nel loro ambiente storico e culturale originale, permetterebbe una loro comprensione e interpretazione più approfondita.
Non dimentichiamo, inoltre, che molto probabilmente Lord Elgin ha realmente trafugato le decorazioni, portando i frammenti a Londra illegalmente: i marmi del British Museum devono essere restituiti al loro legittimo proprietario.
I marmi di Londra, inoltre, sono gli unici espressamente reclamati dal Governo Ellenico, facendo sì che non si verrebbe a costituire un precedente per altre richieste di restituzione, dal momento che il Partenone ha un “valore universale” caratteristico, che lo distingue dagli altri monumenti.
Quello che è avvenuto solo pochi giorni fa, tra Italia e Grecia, è un dialogo che non si deve fermare.
E non si deve fermare neppure al solo scambio fisico dei reperti in questione, ma che è pieno di significato: la restituzione definitiva del piede di Artemide è la conferma di quel sentimento di fratellanza culturale che lega la Sicilia, e quindi l’Italia, con la Grecia, due terre unite dalle comuni radici mediterranee e da antichissimi e profondi legami.
Bisogna fondare la convinzione che anche sulla cultura si debbano creare le nuove relazioni internazionali, tra Paesi che intendono puntare sul proprio patrimonio culturale per poter costruire un futuro stabile.
Vanno quindi poste le basi per la nascita di un’Europa della Cultura fondata su valori antichi e universali.
In un’epoca di guerra ed incertezze, dobbiamo essere fortemente convinti che proprio dalla cultura possa arrivare quel messaggio di pace che unisca i popoli su principi comuni e su una visione di futuro di cui c’è fortemente bisogno.