Cosenza, ore 10.45. Un sabato soleggiato e tiepido di inizio dicembre. Nella nostra porzione di mondo, anche a fine autunno, il freddo sonnecchia e arranca, così da non scoraggiare la gente che si riversa nelle strade di un centro che ben presto inizia a pullulare di gente.
Durante il week-end, per i cosentini, le vasche su Corso Mazzini sono una routine dura a morire…un’abitudine, questa, che però stride alquanto, se si tiene conto dell’emergenza sanitaria in cui versiamo, che ci ha costretti a reiterate quarantene e che ha smembrato l’Italia in zone multi-color, separandoci ancor più di quanto già non fossimo separati di nostro – e non mi riferisco solo ai distanziamenti da adottare contro il coronavirus.
A parte le FFP2 sul viso, c’è nell’aria un altro aspetto diverso dal solito, una nota dissonante che, in un classico sabato dicembrino, rimbomba e si fa largo, nitida, anche tra il vociare concitato delle persone.
A piazza XI Settembre, che potremmo definire un punto strategico per il ritrovo e – perché no? – per la protesta (c’è abbastanza spazio e visibilità per tutti ndr.), in file rigorosamente distanziate e nel pieno rispetto delle norme anti-COVID, una trentina di persone con addosso un camice bianco mostra dei cartelli: “Siamo medici, vogliamo rispetto”, “24mila medici ostaggi del ministero. Basta rinvii! Basta bugie!”, “Sbloccate SSM20”…
Silenziosi, mascherinati, immobili.
E, nonostante la prevedibilità delle mascherine, figlie come sono dei nostri tempi, e l’ovvietà del loro silenzio – eloquente nella sua indignazione -, quello che suscita stupore (per non dire rabbia) in chi conosce la storia di questi giovani medici è un aspetto specifico: l’immobilità. Un’immobilità imposta ed immotivata, perpetuata da uno Stato che gioca col futuro dei suoi giovani.
Ma, per capire bene l’importanza e la trasversalità della protesta dei neomedici di oggi, è necessario qualche preambolo.
Il risultato del test per accedere alle specialità doveva essere notificato ai 20mila e oltre partecipanti già dal 5 ottobre. Ciò non è avvenuto. Così assistiamo al primo di una lunga serie di rimandi – questo, nella fattispecie, è di solo 21 giorni. Al suddetto ritardo se ne aggiungeranno altri tre: due a novembre e l’ultimo, fresco fresco, risale al 3 di dicembre. La spiegazione del MIUR, per questa ulteriore procrastinazione – che più che una procrastinazione “sembra una vera e propria beffa”-, è un laconico e smozzicato “Dovete attendere qualche altro giorno”. Credo sia ormai evidente che Manfredi, il nostro ministro dell’Università e della Ricerca, abbia una percezione del tempo estremamente relativa, visto e considerato che sono trascorsi mesi, e non giorni, da quella che doveva essere la graduatoria di accesso alle specializzazioni.
Tra blocchi delle graduatorie, bandi ambigui – e quindi impugnabili-, ricorsi al TAR e sospensioni delle assegnazioni, lo Stato ha paralizzato la sua meglio gioventù senza troppe cerimonie. Questo – me lo spiega Eugenio Capaldo, un giovane medico che stamattina ha partecipato alla manifestazione– deriva in larga parte da una mancanza di comunicazione e di coordinazione tra due Ministeri distinti: quello dell’Università e della Ricerca, che bandisce le borse per la formazione dei medici, e quello della Sanità, che, invece, organizza i posti di accesso ai neolaureati nei vari reparti. “Ciò – mi dice – ha provocato una vera e propria perdita della proporzione di quelli che sono gli ingressi in specialità e il fabbisogno sanitario dal punto di vista della forza lavoro”.
Diffidiamo, quindi, dalla chiamata alle armi dei medici in pensione con cui ci bombarda quotidianamente lo Stato perché offre un’immagine falsata della realtà. Di giovani capaci e pronti a rimboccarsi le maniche ce ne sono letteralmente a migliaia, ma sono bloccati a casa, a causa di una macchina burocratica che li tortura a furia di cavilli e procrastinazioni.
In più, è il caso di puntualizzare un aspetto nient’affatto secondario: qualora non fossero impiegati, i soldi investiti per le borse (circa 14mila, comunque troppo poche perché possano coprire tutti i partecipanti al concorso ndr.), andranno in avanzo e non ci sarà la possibilità di avviare la specializzazione.
Da malata oncologica e, quindi, da persona che ha sperimentato sulla propria pelle il nostro sistema sanitario, posso assicurarvi che gli specializzandi sono una risorsa irrinunciabile. Molti – per lo più persone che non sono mai entrate in un reparto né da una parte né dall’altra – continuano a ignorare il fatto che gli specializzandi siano ingranaggi rilevanti, per non dire fondamentali, nell’assetto organizzativo di molti ospedali e che, senza di loro, complice la penuria di medici strutturati, gli ambulatori e i reparti dei suddetti ospedali sarebbero al collasso.
Aspetto, quest’ultimo che, in un certo senso, ha evidenziato ieri in Aula lo stesso Speranza, il quale ha annunciato che la priorità del Paese è quella di formare nuovi medici e che, visti i tempi, proprio gli specializzandi dovrebbero essere il cardine del Piano di distribuzione vaccinale. Il punto è che siamo a dicembre e l’odissea di tutti questi giovani, totalmente abbandonati dalle Istituzioni, sembra lontana dal concludersi.
Innanzitutto perché non tutti coloro che hanno partecipato al concorso per entrare alle specializzazioni accederà di fatto alle specializzazioni stesse. Il problema che si pone qui è di notevole rilevanza e tocca un nervo scoperto per molti studenti e neolaureati: il così detto “imbuto formativo” che, per usare un’espressione evocativa di Francesco Silletta, un altro dei presenti alla manifestazione, è a dir poco grottesco. Il giovane medico evidenzia, con grande lucidità e profonda lungimiranza, che il problema non è tanto l’ingresso a medicina, ma è “uscire da Medicina in modo dignitoso, formando medici che non siano obbligati a stare a zonzo due, tre, quattro anni, costretti a forza sul territorio. Fa più clamore – continua – il test d’ingresso a Medicina che la mancanza di borse per tutti i medici che tentano di accedere alle specializzazioni.” A diciott’anni – conveniamo entrambi – le persone sono meno consapevoli delle proprie scelte di vita rispetto a gente che di anni ne ha 25. Ciò sta a significare che, se una persona ha concluso un percorso di studi complesso e faticoso, come quello di Medicina, è perfettamente consapevole della scelta fatta e ha il sacrosanto diritto di completare la sua formazione.
Nel corso della manifestazione, chiedo anche a una ragazza del gruppo perché non abbia cercato o accettato altri lavori, in attesa della graduatoria finale. “La specializzazione – mi spiega – non è compatibile con tantissimi contratti che potenzialmente potrebbe firmare un neolaureato in medicina. Inoltre, dato che le preferenze indicate sono in larga parte per città diverse da quella di residenza, il contratto, qualora fosse compatibile con la specializzazione, dovrebbe essere risolto prima del trasferimento e la mancanza di prospettive future ci obbliga all’attesa e a non poter prendere altri impegni.”
Se consideriamo che tutti questi medici non hanno idea di dove saranno a partire dal prossimo 30 dicembre e che, se dovessero entrare in una qualche specializzazione, dovrebbero trovare una sistemazione, traslocare e iniziare a lavorare tra meno di un mese, il suo discorso non solo non fa una grinza, ma è condivisibile, anche da chi sembrerebbe non essere direttamente interessato dal problema.
Quello che non è chiaro a quanti, apaticamente, bypassano questa questione, cassandola come qualcosa che non ci riguarda tutti in senso stretto, è che la sanità e il futuro di noi giovani sono la priorità assoluta, anche e forse soprattutto in tempi di pandemia.
I ragazzi che sono scesi in piazza oggi sono il cambiamento auspicabile e auspicato di un sistema sanitario (e non solo) corroso e scempiato più dal disinteresse che dalla cattiva politica. Uno Stato in cui la Sanità e la Ricerca non funzionano a dovere o addirittura risultano non avere alcuna forma di precedenza per chi fa politica è un Paese marcio fin nelle fondamenta, fin nelle radici che necessitano delle cure e dell’aiuto non solo di medici, ma di tutti quei cervelli che, dopo anni di stenti e disoccupazione, sono costretti a emigrare altrove in cerca di un’occupazione dignitosa.
Le parole che ho sentito ripetere più volte stamattina, dai ragazzi scesi in piazza, sono proprio queste: “lavoro” e “dignità”. Non credo che la scelta di questi termini sia casuale, né tantomeno da sottovalutare in quanto a potenza.
Ritengo che sia arrivata l’ora, già tarda, che tutti quanti noi, medici e non solo, reclamiamo dalle Istituzioni il rispetto che ci è dovuto perché nessuno venga lasciato alla deriva da un Sistema così deteriorato da averci fatto dimenticare com’era da sano. Stamattina, appena sono arrivata, mi hanno messo in mano un cartellone. Recitava “Siamo medici, vogliamo rispetto!”. Io, con un sorriso un po’ imbarazzato, ho ricordato ai presenti che no, non ero un medico, anche se sposavo la loro causa.
Una ragazza che conosco, neodottoressa anche lei, mi ha risposto “Sei una di noi perché sei una cittadina consapevole”. Ho preso il cartoncino che mi aveva allungato un ragazzo mai visto prima, me lo sono piazzata ben visibile sul petto perché sì, in fondo, oggi sono un medico anche io.
Nata a Cosenza alla fine del 1994, trapiantata a Milano da diversi anni.
Laureata in Filosofia e specializzata in Scienze Filosofiche, esperta di Rivoluzione Francese e vincitrice di numerosi premi letterari, ha collaborato a soli 19 anni ad una nuova traduzione di un’opera di Kant, è un’accanita sostenitrice della ricerca contro i tumori e attualmente si occupa di risorse umane e della stesura del suo primo romanzo.
Appassionata di storia, scrittura, letteratura e fotografia!