"Maria, diventa madre anche per me"

Nome femminile: Paola – Nome maschile: Marco

Giulio ha smesso di scoparsi Asia: per il sesso ci sono Veronica e la stagista di Luca – il nome non lo ricorda né gli importa. Asia con Giulio non ci parla più; da quando gli ha detto “sì” su un altare qualcosa si è rotto. Del vincolo che li lega a Giulio è rimasta l’asfissia – il senso di condanna. Asia non ama Giulio da prima del sì; eppure un figlio lei lo vuole e lo vuole adesso con Giulio, a trentatré anni e quattro mesi, prima che sia troppo tardi. Ogni tanto, alla sera, Giulio allenta la cravatta e guarda Asia boccheggiare tra le lenzuola sfatte. Si sforza di trovare una ragione, di restituire dignità alla magia che c’è stata e che ora non c’è più. Quella stessa magia che Asia ha escluso dal suo matrimonio perché poco pratica e inconcludente. Dei viaggi in Marocco e in Vietnam restano le fotografie esposte nelle cornici d’argento. Prima di andare a lavoro, Giulio si sforza di riconoscere sua moglie in quel sorriso bianco che illumina ogni scatto, ma ormai di quell’Asia non è rimasto niente: solo qualche residuo sebaceo agli angoli puntuti degli specchi; poche tracce epidermiche, residuali, appassite nelle intercapedini in mezzo alle quali è difficile passare la polvere. Asia ha amato Giulio; Giulio ha amato Asia, ma in dei corpi cambiati, in un tempo diverso. Ora Asia vuole un figlio e lo vuole da Giulio. Ha deciso che faranno l’amore dopo il telegiornale della sera e prima delle 21:30. Ha letto sul giornale che su Rai 5 c’è un documentario sulla politica estera di Andreotti: Giulio non vorrà perderselo.

Nome femminile: / – Nome maschile: /

Ci si innamora dei dettagli, non delle tragedie. Di questo Aurora ne è certa. Per lei la totalità non è mai stata un sinonimo di “insieme”, ma piuttosto di “unicità”: più precisamente di un’unicità che si ottiene dalla somma di particolari irrilevanti. Ecco perché a lei di Andrea piacciono queste cose (l’ordine è casuale): le rughe di espressione – che grazie a una pubblicità di una crema viso ha scoperto che sono solo una delle quattro tipologie di rughe esistenti (le altre sono: pieghe da sonno, rughe attiniche e rughe gravitazionali) – le altre rughe di Andrea ad Aurora non piacciono o, almeno, non le piacciono così tanto da finire in questa lista; la risata gutturale che gli scoppia nel petto e nella gola nei momenti più inopportuni e che, in singulti, gli salta fuori dalla bocca come una rana; le sue battute da adolescente in piena tempesta ormonale che non fanno ridere neanche gli adolescenti in piena tempesta ormonale; il modo in cui muove le mani quando spiega qualcosa a qualcuno: Andrea non parla: accompagna il discorso, sfiorandolo coi polpastrelli, per rendere le parole più carezzevoli e più accessibili a chi lo ascolta; la generosità appassionata in cui la fa venire con le dita e con la bocca la mattina presto quando, ancora sporca di sonno, sta per alzarsi dal letto per infilarsi in doccia. È chiaro ed evidente che sono più le cose che ama di Andrea che quelle che non ama… allora perché quel “Incinta da 1-2 settimane” sul display del Clearblue l’ha gettata nello sconforto? Aurora e Andrea si frequentano da 11 mesi. Aurora ha conosciuto il padre di Andrea, ma non sua madre; Andrea ha conosciuto la madre di Aurora, ma non suo padre. Non hanno mai litigato sul colore da scegliere per ritinteggiare le pareti della cucina né su chi sia deputato a gettare l’umido nei bidoni condominiali. Andrea non l’ha mai vista piangere, non l’ha mai vista fragile, non l’ha mai vista nuda. Non sa niente della bulimia contro cui combatte da anni, né del silenzio irrimediabile che è piombato come un lutto tra lei e Agnese. Andrea ama Aurora, ma un’Aurora a metà, un’Aurora da stiamo-insieme-da-meno-di-un-anno: di certo non l’Aurora da cui volere un figlio. Si asciuga gli occhi colanti di mascara col dorso della mano. Si guarda di sghimbescio nello specchio rettangolare sopra il lavandino. Esce dal bagno, dopo essersi ricomposta quel tanto che basta per sembrare normale. Disinvolta, butta nella pattumiera in corridoio il test di gravidanza avvolto da un agglomerato di salviette. Poi sfila lo smart-phone dalla tasca della gonna. Digita: “Complicazioni aborto”. È l’unica scelta: è la scelta giusta. Si siede alla scrivania. Ci daremo altro tempo, si dice, sì, io e Andrea siamo ancora in tempo.

Nomi femminili: Marta/Alma – Nomi maschili: Giuseppe/Massimiliano

Una ragazza di 22 anni non pensa a ovociti, a figli, a mariti; non nutre interesse per le villette a schiera in Brianza, per le station wagon blu metallizzato, per i “prendi tre paghi due” dell’Esselunga. D’altronde che motivo avrebbe per farlo? Augusta non ha un compagno e non lo cerca neanche. Sono gli anni convulsi dell’università, di un futuro sperato che inghiotte vorace un noioso presente.

Prima della diagnosi, Augusta, delle gonadotropine, non sapeva nulla. Dopo la diagnosi, Augusta, delle gonadotropine, sa tutto. “Dobbiamo congelare gli ovociti. L’ABVD non è lesiva per la fertilità, ma, ecco – l’ematologa tituba – se non dovesse funzionare, dobbiamo pensare a un’altra strategia terapeutica che invece può causarle maggiori problemi”. Le allunga un post-it giallo su cui ha scarabocchiato un nome e un numero. Il padre, sciolto sulla sedia di fianco alla parete, non lo guarda neppure. L’ematologa parla solo con Augusta e ad Augusta dice: “La chiami subito. Abbiamo poco tempo. Dobbiamo iniziare quanto prima”.

Dopo 14 giorni dalla visita all’INT, Augusta se ne sta stesa e in attesa nella stanza numero 3 del Centro Scienze della Natalità del San Raffaele. Nella sua testa iniziano a profilarsi scenari più o meno verosimili: nessuno collimante con la realtà. Non ho nulla da perdere: se non ne prelevano abbastanza sticazzi. Una voce flebile interrompe il suo vagabondaggio mentale.

“Buongiorno”. Una donna col viso pieno e i capelli raccolti in una coda alta la fissa dalla porta. Non ha il camice: non è una ginecologa né un’infermiera.

“Buongiorno”

“Posso?”

Ha un borsone nero che le pende dalla mano destra. È una paziente.

“Certo, si accomodi”.

La donna col viso tondo e i capelli raccolti in una coda alta si siede sul bordo del letto. Le spalle le sussultano seguendo il ritmo dei singhiozzi.

“Su, non faccia così, andrà tutto bene”.

Di fronte alla disperazione, Augusta non sa come comportarsi: non ha il cervello adatto per assecondarla – solo due braccia preparate ad accoglierla. E quindi eccola scattare come una molla per accudire la sconosciuta in lacrime. “Se non funziona neanche questa, io, io…”, non riesce a finire la frase. Augusta le allunga un fazzoletto. Poi un bicchiere d’acqua. Dopodiché un altro fazzoletto. Al secondo bicchiere d’acqua la signora si calma e inizia a raccontarle la sua storia. La donna col viso pieno e i capelli raccolti in una coda alta si chiama Maria, viene da un paese di 5000 anime vicino a Lamezia Terme, è sposata con Pietro da dieci anni, lo ama da quindici e da otto prova ad avere un figlio con lui – non ci riesce – così da un po’ di mesi vivono entrambi in funzione di visite, analisi, altre visite; prima per Maria, poi per Pietro, poi di nuovo per Maria. La donna col viso pieno e i capelli raccolti in una coda alta parla dei suoi pellegrinaggi negli ospedali di mezza Italia. Nessuna terapia che ha provato è andata a buon fine così l’extrema ratio: la criopreservazione degli ovociti propedeutica alla fecondazione in vitro. Maria ha paura. “Abbiamo pensato all’adozione, ma io – si interrompe un istante per prendere fiato così da dire ad Augusta quello che le sta per dire senza essere interrotta da niente: neppure dal suo respiro – lo so che è sciocco, ma voglio sentire mio figlio crescermi dentro”. Prima che Maria glielo facesse notare, Augusta non aveva mai riflettuto su quello che succede nel grembo di una donna quando rimane incinta. Il miracolo della vita è un pensiero che non l’aveva mai sfiorata finché non aveva saggiato il dolore di una madre costretta dal suo corpo a non poter essere tale.

“Con Marta e con Giuseppe io ci parlo”. Maria ha già dato un nome ai suoi figli. Dare un nome alle proprie fantasie le rende reali, le ancora alla terra e, un giorno, se si è abbastanza fortunati, le cede alla carne. “E tu perché sei qui? Sei giovanissima…”, domanda Maria ad Augusta, quando si rende conto di aver esaurito le energie per parlare di sé stessa. “Ho un cancro, tra qualche giorno inizio la chemio. Vogliono proteggere la mia fertilità”. Maria guarda Augusta negli occhi, senza cedere all’impulso della pena.

“Tua madre come sta?”, chiede Maria ad Augusta. “Se la cava”, risponde Augusta a Maria. “Vi volete bene?”, chiede Maria ad Augusta. “Ci amiamo”, risponde Augusta a Maria.

Nel preoperatorio le due compagne di stanza sono ancora insieme. La madre non-madre non piange più: ora tocca ad Augusta.

“Se non saranno abbastanza, prendi i miei”.

“I tuoi cosa?”

“I miei ovociti: se i tuoi non saranno abbastanza prendi i miei. Maria, diventa madre anche per me”.

Un infermiere trascina la barella di Augusta verso la sala operatoria, la donna col viso pieno e i capelli che erano raccolti in una coda alta e che ora sono schiacciati in una cuffia di plastica non ha il tempo di ribattere.

Nella lingua di coscienza che resiste più a lungo alla sedazione, avvolta dal vapore obnubilante dei farmaci, Augusta vede Marta, vede Giuseppe. Felici, giocano a ricorrersi in un parco con altri due bambini che Augusta ha deciso di chiamare Alma e Massimiliano. La scelta non è casuale: sono i nomi dei figli che non avrà mai.

Nome: Anna

È stato dal sangue.

È stato del sangue.

La camicia da notte inumidita, incollata, premuta sulla carne a tamponare il disastro; a nascondere l’orrore; a depistare la morte.

Poi è stato dal dolore… è stato del dolore – fitto e denso – ad avvertirla che Anna era nata, ma spezzata; defluita dal suo utero – liquida e rossa.

La Sua gravidanza è un miracolo.

È stato l’ecografo a cogliere per primo la vita, , nel suo ventre. Proprio lì – qui la senti, la vita?

Lo stupore di un battito, la linea di un profilo, la gioia di una madre… ed ora?

Cosa resta ora di allora?

Delle coperte incrostate, messe all’angolo, schiacciate nell’intercapedine tra l’armadio e la porta. Una massa amorfa a ricordarle che Anna c’era e c’è, in particelle, incastrata, là e ancora, tra le trame del cotone.

La mia gravidanza è un miracolo, ma io no; nei miracoli, non c’ha mai creduto, anche quando in Dio credeva.

Guarda, Nina, il sangue di San Gennaro: il sangue s’è fatto liquido. Sarà un grande anno.

Quell’anno là – il suo grande anno – un fascio ionizzante le illuminò a neon una poltiglia putrescente nel mezzo del mediastino.

Quindi via, poom, di bombardamenti, poom, di devastazioni, poom, di macerie – poom… spiazzata e martoriata, come i superstiti di settembre – fiumare lungo le strade di Amman.

E poi eccolo, il sale, sul suo corpo sterile, solo

sale.

Ma, tra i granelli, al centro del vuoto siderale, un mughetto: la piccola Anna – la vita rifiorita, a(f)fatica.

Venti settimane: tanto crebbe sul ramo il frutto acerbo, prima che il picciolo si spezzasse, prima che la memoria congelasse la carne, rendendola all’eterno.

La criopreservazione del ricordo: che Anna non demorda; che Anna non si arrenda all’orrido calore, labile conforto della dimenticanza.

Nome: Noa

“Noi diciamo no all’adozione per coppie gay: è un’induzione ingiustificata a crescere gay. Secondo me, il diritto naturale, sancito anche dalla costituzione, ci porta ad una coppia formata da un uomo e una donna. Il resto è un modello che non va bene”.
Ignazio La Russa, avvocato, fascista, nonché seconda carica dello Stato italiano
 
“È meglio che un bambino resti in Africa piuttosto che sia adottato da una coppia omosessuale”.
Rosy Bindi, politica e figura di spicco di Azione Cattolica, è stata ministra per le politiche per la famiglia nel secondo governo Prodi (coalizione di centro-sinistra)
 
“Un genitore omosessuale può essere un ottimo genitore ma bisogna vedere che modello vogliamo: non abbiamo un modello che prevede una mamma e un papà”.
Eugenia Roccella, giornalista, ex-radicale e femminista pentita, è l’attuale ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità
 
“Il Senato italiano ha bocciato il riconoscimento dei diritti dei figli di coppie omogenitoriali e l’adozione di un certificato di filiazione che prevede che la genitorialità stabilita in uno stato sia riconosciuta in qualunque altro stato europeo”.
Citazione liberamente tratta da un articolo di Marco Cappato, pubblicato sul quotidiano “Domani”

“È incinta”.

“Chi?”

“Asia. Asia è incinta”.

“Asia?! Ma chi? Asia Romei?”.

“Eh… conosci altre Asie a parte lei e il continente?”

“Ma non…”

“Sì, non e invece a quanto pare ”.

“Dai, son felice per lei”.

“Io no”.

“Lidia, non fare la stronza”.

Lidia scoppia a piangere coi palmi premuti sugli occhi.

“Amore, oh, non fare così, dai, su, ché mi prendo male pure io”.

Lidia continua a piangere. Più forte, come quando da bambina si sbucciava le ginocchia cadendo dalla bici sulle mulattiere che circondano Nardò; come a volersi far sentire da sua madre che, punitiva, le avrebbe spremuto a fiotti la tintura di iodio sulle piaghe aperte. Ma stavolta a sanguinare non sono i suoi stinchi.

“Lidia, guardami. – Elisa cerca un contatto visivo, ma lo sguardo di Lidia si fa sfuggente – Guardami: non fare così, non è giusto”.

“Non è giusto nei confronti di chi? Non è giusto cosa? Che mi faccia incazzare che… che”.

“Dillo: che?”

“Che per una donna che non ama più suo marito da prima che diventasse suo marito sia così facile avere un figlio suo e per noi no. Per me e per te no, capisci? Per noi due: io e te”.

Lidia ed Elisa, Elisa e Lidia. Nei discorsi che le riguardano non compaiono mai separate. Tra loro, per amici e conoscenti, non esistono fratture: sono un’unica stupenda creatura senziente catapultata nel mondo per volontà di una divinità meschina che le ha fatte innamorare solo per vederci schiumare d’invidia. Nell’immaginario di tanti, “Lidia ed Elisa” non rappresentano tanto una delle possibili declinazioni del termine “amore”, ma un suo sinonimo perfettamente combaciante, un caso studio per la linguistica delle relazioni. Del loro strabiliante composto aplologico ciò che suscita meraviglia è proprio la particella copulativa; quella “e” tra “Lidia” ed “Elisa” che non correla, ma rafforza. La congiunzione non ha un valore sintattico: serve solo a restituire a chi le incontra quel senso di totalità che le contraddistingue. Da due anni a questa parte, alle cene organizzate tra gli amici di sempre, non fanno altro che parlare di bambini. Sono già madri, ma nessuno le ha avvisate. Il giorno del battesimo di Lori erano incantevoli. In tutta la chiesa non c’è stata una singola persona che ha guardato mia figlia concentrati com’eravamo sulle sue madrine. Restituiscono semplicità all’amore, destrutturando fino a farla sparire quella complessità che crediamo serva ai sentimenti per dar loro la giusta taratura, ma che invece li distrugge avviluppandoli in inutili congetture.

“Ne abbiamo già parlato, oh, Lidia, guardami quando ti parlo, per favore, guardami”.

“Non ce la faccio più. Mi fa male il cuore”.

“Se fa male a te, presto farà male anche a me”.

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