L’altra mattina, come molte altre nell’ultimo periodo, poco prima delle 9, ho preso un autobus quasi pieno per la stazione Termini e, seduto di fronte a me, c’era un signore con tratti somatici del Sud America. Una persona garbata, con un sorriso limpido, sereno. Mi hanno colpito subito la sua gentilezza, il suo tentativo pacato di far sedere un buffo signore con la coppola, il suo sguardo che si perde prima nel finestrino, poi nel suo cellulare.
Le sue dita scorrono sullo schermo mentre scorgo delle frasi in spagnolo, ma non capisco bene di cosa si tratti. Il mio sguardo, allora, tenta di focalizzarsi meglio sull’immagine, e realizzo che sta spulciando un sito di notizie della sua terra natale, il Perù. Quel gesto, all’apparenza così semplice, mi comunica immediatamente una nostalgia che provo anche io: quella di casa. Vorrei conoscere la sua storia, domandargli perché si trovi qui e dove stia andando. Ma non lo faccio.
Arriviamo al capolinea e lui si sistema meglio lo zainetto sulle spalle e si avvia verso l’interno della stazione.
Proprio in quell’istante, nel luogo per eccellenza delle partenze e degli arrivi, tra le valigie e i bagagli degli altri, ho pensato a quanto ciascuno di noi trascini in giro la propria vita con la sua stanchezza e preoccupazioni senza battere ciglio.
Io non so cosa sia conservato nel mio bagaglio, non so se l’ho appesantito consapevolmente o se, ad un certo punto, alcune cose si siano infilate in quella valigia o in quello zaino e lì, si siano nutrite delle mie paure, dei miei silenzi, delle mie giornate buie.
Sono certa di aver riposto in quelle fessure tutto ciò di cui sono estremamente gelosa o che mi procura dolore, insieme a tutto quello che, per un motivo o per un altro, non sono mai riuscita a lasciar andare via. Che si tratti di ricordi belli o brutti, passati più o meno recenti, persone spesso lontane – nel tempo, soprattutto.
Quel bagaglio contiene quello che sono stata, che lo rifiuti o lo accetti, e mi ricorda che, molto spesso, sono più di quello che vedo. Poi, se trasformare quella sensazione in qualcosa di positivo, in un’occasione di crescita, dipende soltanto da me, non da quel cumulo di ricordi ed esperienze.
È sempre quel solito discorso di dialettica passato-presente che condiziona le nostre azioni anche quando ci convinciamo che non sia così.
Poi, accade qualcosa.
Accade che, per esempio, opponiamo resistenza ad opportunità, ad occasioni, e lo facciamo per paura, lo facciamo perché spesso, da quel bagaglio, esce fuori una felpa stretta e calda che non ti lascia andare.
Quindi non ne proviamo una nuova, non vediamo neanche come ci sta, perché tanto è inutile: non la metteremmo mai.
Altre volte, accade che, invece, proprio in virtù di quell’ingombrante carico, stanchi di non sapere mai dove riporlo, accettiamo di doverci fare i conti e decidiamo di conviverci, di portarcelo appresso come facciamo con la borsa del lavoro e accettiamo tutto ciò che viene con gratitudine ed entusiasmo. Senza timore, consapevoli del fatto che quel peso non può e non deve vincolarci, sarebbe da sciocchi. Perché, in fondo, cosa mai potrebbe accadere? Che qualcosa, o magari tutto, non vada come previsto? Che cadiamo e ci facciamo un po’ male? Vi farà piacere sapere che, in quel caso, molto probabilmente, dipenderà da altro, non da ciò che è stato, da ciò che eravamo.
Se è vero che la vita è fatta di incastri e tempismo, presumibilmente, avremo mancato il momento giusto. E questo non è sempre un male.
Forse, quello che mi spaventa di più è che, crescendo, inevitabilmente, il mio bagaglio diventi sempre più pesante, difficile da trascinare e sopportare. Poi, però, mi rendo conto che proprio tutto quello che conservo lì è ciò che mi rende quella che sono. In qualche modo, non posso farne a meno. Eppure, se ci penso, cavolo, com’è stato difficile superare certe cose, com’è stato complicato disfarsi di alcuni pensieri e trovare il coraggio di proseguire.
Di recente, mi sono ritrovata a staccare – non senza una certa fatica – alcune fotografie dalla mia camera e a riporle sul fondo di una scatola insieme a candeline spezzate, ticket della metro, scontrini, bigliettini e altre cianfrusaglie. Ricordi. In mezzo a tutte quelle piccole cose, a quella vita vissuta, ho rivisto tanti pezzetti di me, alcuni per i quali ho sofferto molto e che ancora oggi sento vibrare fortissimo; altri per i quali ho da regalare solo un sorriso sereno, di liberazione.
I nostri ricordi sono spesso troppo invadenti, si appropriano del nostro presente e lo fanno senza chiedere il permesso. Ho sempre creduto che fronteggiarli sarebbe bastato, che accettarli e infilarli nel mio bagaglio sarebbe stato sufficiente. E invece, proprio mentre conservavo quelle fotografie nella scatola, ho provato un’immensa tristezza, una morsa allo stomaco. Credevo sarebbe stato più semplice, ma dietro quei volti immortalati su un pezzo di carta plastificata, si cela molto altro. Ecco, lasciar andare gli altri e noi stessi, per quello che eravamo, è spesso molto difficile. Questo non vuol dire far scomparire completamente, significa essere in grado di mettere un punto, andare avanti e conservare in una scatola ciò che è diventato, ormai, superfluo.
La verità è che mi fa paura, mi fa sentire vulnerabile. Forse perché dietro questo pensiero si nasconde un timore più profondo: quello di non essere compresa dagli altri. Non che questo sia assolutamente necessario, ma in realtà, tutti, abbiamo bisogno di essere capiti, sostenuti. Ed è per questo che imparare a dividere i pesi che ciascuno di noi si porta dietro diventa fondamentale. Perché con l’aiuto di qualcuno è più facile andare lontano, anche se c’è parecchio da trascinare. Insieme diventa più semplice, anche quando le valigie sono tante e gli spazi in cui riporle così pochi.
In una puntata del mio telefilm preferito, How I Met Your Mother, si parla proprio di questo: del bagaglio che ognuno di noi si porta dietro che fa capolino quando mai vorremmo. Ci si sforza di conservarlo negli angoli più sperduti, ma poi eccolo lì, come a dire “non fingere che non ci sia”. A fine episodio, però, il protagonista realizza che tutti portiamo in giro grossi e pesanti bauli, che tutti ne siamo a nostro modo perseguitati ma che, ad un certo punto, come al ritorno da un lungo viaggio, pian piano il bagaglio si alleggerisce.
Si alleggerisce perché butteremo via la felpa comoda che, nonostante ci abbia tenuto a caldo per tanto tempo, non ci entra più; butteremo via lo scontrino del primo appuntamento perché le scritte saranno praticamente illeggibili; butteremo via i biglietti della metro perché ce ne serviranno di nuovi. Si alleggerisce perché, magari, avremo deciso di dividerne il peso con qualcuno.
Come il signore peruviano, anche io ho nel mio zaino tante cose che porto con me: la scatola dei ricordi, le fotografie, qualche vestito e cianfrusaglia sparsa. Mi piace pensare di poterlo aprire, poco alla volta, liberandomi di quello che davvero non mi serve più, per fare spazio ad altro. Condividendo con gli altri oppure no. Perché la verità è che mi fa paura, molta, ma è proprio questo il bello. La paura, io, la voglio affrontare con quello zaino sulle spalle.
Docente, laureata in Lettere Classiche e Filologia Moderna.
Ha conseguito un Master in Economia e Organizzazione dello Spettacolo dal Vivo, perché il suo sogno nel cassetto è di diventare la giovane manager degli artisti lirici italiani nel mondo.
Dalla spiccata sensibilità, fa dell’istruzione la sua missione quotidiana, plasmando giovani menti, e fa volontariato in ospedale grazie alla sua prepotente voglia di aiutare il prossimo.
Appassionata di musica (di ogni genere), lettura e scrittura, soprattutto creativa.