L’utopia dell’Ucraina subito nell’Unione Europea

"L’Ucraina, inoltre, è considerato un Paese arretrato sotto vari punti di vista e, per certi aspetti, ancora meno maturo dei Paesi Balcani che, ormai da anni, stanno cercando di entrare nell’Unione."

Kiev, 1 Marzo, prima settimana d’invasione russa.

Volodymyr Zelensky è collegato dal suo bunker di Kiev con il Parlamento Europeo, riunito in seduta straordinaria, in una giornata che rimarrà a suo modo storica: con 637 sì, 13 no e 26 astenuti, l’Europarlamento ha esortato i 27 Stati membri a concedere all’Ucraina «lo status di candidato membro dell’Ue». Nella stessa giornata, il Presidente Zelensky ha chiesto al Parlamento UE di adoperare una «nuova procedura speciale»: sostanzialmente una scorciatoia per l’ingresso del suo Paese nell’Unione, ma che rappresenta un’eccezione, mai esistita nei Trattati costitutivi dell’Europa (Roma, 1958 e Maastricht, 1993).

«È una cosa giusta e ce la meritiamo», hanno tuonato da Kiev.

Non si discutono i meriti, ma quant’è reale la possibilità che l’Ucraina diventi, in tempi brevi, un membro dell’Unione Europea? E com’è possibile che possa prendere (e pretendere) scorciatoie un Paese attualmente in guerra, che non ha il controllo del suo territorio e dov’è impossibile stabilire, in via definitiva, se la Crimea sia in Ucraina oppure no, o se il Donbass sia una regione autonoma?

Procediamo per gradi.

Il passaggio successivo all’approvazione di una mozione di mera esortazione, è quello di ottenere (concretamente) lo status di candidato. Il Trattato di Maastricht, all’articolo 2, prevede che alla base dell’accesso vi sia la condivisione dei “valori comuni”: valutare è compito della Commissione, che normalmente impiega un anno e mezzo. Nella migliore delle ipotesi.

Di certo non è il caso della Bosnia, che ha presentato la domanda di adesione nel 2016, ma ancora oggi non ha ottenuto l’ambito status. Nel caso dell’Ucraina, però, la Presidente Ursula von der Leyen ha detto che «gli ucraini ci appartengono e condividono i nostri valori».

Nessun grande problema, quindi, per il primo step.

Dopo la Commissione, però, deve esprimersi all’unanimità il Consiglio Europeo che, a sua volta, deve informare i propri Parlamenti nazionali. Superato lo scoglio dell’unanimità, è il Parlamento Europeo che concede lo status di candidato, che ancora non significa ingresso automatico in Europa.

Il primo pensiero va alla Turchia, che è candidata dal 1999: ben 23 anni, ma è ferma là, perché l’UE ha “preso tempo” e perché il Presidente Erdogan, tra violazioni dei diritti umani e islamizzazione di Stato, non ha mai fatto un solo (vero) passo per andare verso i requisiti richiesti.

Ottenuto lo status di candidato, poi, seguono i negoziati su ben 35 materie, poiché le leggi del Paese candidato devono armonizzarsi a quelle comunitarie: dal fisco alla giustizia, istruzione, sanità, sistema bancario, politiche energetiche e agricole, dogane, trasporti e via discorrendo.

Quando tutta la trafila e le verifiche saranno terminate, il trattato di adesione dovrà essere approvato all’unanimità da parte del Consiglio UE e a maggioranza dal Parlamento Europeo, oltre che da tutti i 27 Parlamenti dei Paesi aderenti all’UE.

Entrare nell’Unione, quindi, è una procedura lunghissima che richiede tempo, e anche molti sforzi da entrambe le parti.

Sulla “procedura rapida”, nella Commissione UE, sembrano tutti d’accordo: «Anche a costo di lavorare 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana», parola di von der Leyen.

Ma le cose cambiano nelle tappe successive, quelle dei negoziati: ed è proprio il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ad ammettere che sulla faccenda «ci sono opinioni e sensibilità diverse. A favore di un ingresso accelerato dell’Ucraina spingono l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Slovenia. Protestano apertamente quei Paesi che da anni stanno negoziando ma non sono ancora riusciti a entrare (…). Sono più freddi invece sulla reale possibilità di ingresso dell’Ucraina in tempi rapidi la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e la Francia».

Considerato l’iter sopra descritto, bye bye procedura rapida: parola di Olaf Scholz ed Emmanuel Macron.

Per analizzare i pro e i contro dell’ingresso dell’Ucraina nell’UE, partirei da uno studio del CEPR (Center for Economic Policy Research), prestigioso think tank basato a Bruxelles, il quale stima che gli aiuti esterni necessari alla ricostruzione del Paese (ossia quelli al netto dell’apporto nel tempo delle stesse casse ucraine) potrebbero variare tra i 200 e i 500 miliardi di Euro. Questo studio non entra nel dettaglio dei possibili vantaggi per l’Unione di un’adesione dell’Ucraina al blocco, ma si limita a legare tale prospettiva alla necessità che «gli aiuti siano gestiti in modo pienamente coerente con le politiche e le procedure dell’Ue», in modo da «fornire un’ancora credibile per le riforme istituzionali» (dell’Ucraina, ndr).

Al di là dello scritto, l’importanza strategica dell’Ucraina è evidente: lo è per la sua posizione geografica, crocevia tra Est e Ovest. Lo è per la sua produzione agricola e per le sue riserve energetiche, dal gas al carbone, passando per il nucleare. Senza dimenticare il sottosuolo ricco di minerali.

Ma c’è un aspetto che è ancora molto poco esplorato: il ruolo che l’Ucraina potrebbe svolgere per accelerare il Green Deal, ossia la transizione ecologica dell’economia europea. La ricostruzione di questo Paese, quindi, va vista anche come un’opportunità di salto tecnologico, creando un’economia priva di emissioni di carbonio. Come nel resto della UE. Prima o poi.

Ricostruire l’apparato industriale ucraino distrutto dalle bombe potrebbe voler dire riconvertirlo alla produzione di tutti quei componenti necessari alla transizione ecologica che, a oggi, l’UE è costretta a importare: l’Ucraina è ricca di materie critiche, come il litio e le terre rare, di cui c’è una fame crescente perché alla base, per esempio, delle batterie delle auto elettriche. Già alcuni Paesi dell’Unione, come il Portogallo, stanno valutando l’ipotesi di aprire nuove miniere per sfruttare i propri giacimenti, ma lo slancio si scontra con remore ambientaliste di cui l’Ucraina, invece, non sembra essere affetta.

Tale conclusione sembrerebbe confermata, nei fatti, dal Memorandum tra la Commissione UE e Kiev dello scorso luglio, avente a oggetto proprio la ricerca e lo sfruttamento delle materie critiche ucraine. Materie che, a loro volta, potrebbero alimentare una filiera di batterie a costi concorrenziali con l’attuale (vero) padrone del mercato: l’Asia.

Sembrano allora evidenti le motivazioni che stanno alla base del favor della Commissione all’ingresso immediato dell’Ucraina nell’Unione, con tanto di invito agli Stati membri a “mettere mano al portafogli”, con il fine di finanziare un fondo fiduciario che, secondo Bloomberg, sarebbe già pronto per finanziare la ricostruzione.

Ma prima di accedere al club bisogna avere le carte in regola: attuare riforme strutturali per allinearsi ai principi democratici ed economici dell’Unione Europea.

Precedentemente all’invasione russa, l’Ucraina veniva considerata ancora una democrazia debole dalla stessa UE: un rapporto del 2020 al Parlamento Europeo sottolineava come l’Ucraina sconti ancora gravi carenze sotto il profilo dello stato di diritto, dei sistemi di anticorruzione, ma anche del rispetto dei diritti umani.

Tali problemi, però, potrebbero venir risolti dalla classe politica ucraina in tempi più rapidi rispetto in tempo da pace, proprio grazie allo stimolo di una chiara prospettiva di integrazione nell’Unione. Il che potrebbe portare anche a risparmi nel lungo termine sotto il profilo dei costi della ricostruzione e del rilancio economico ucraino. Ed esiste un precedente.

La Polonia, dopo l’ingresso nell’UE, ha ricevuto fondi per 160 miliardi di Euro in 15 anni ma, allo stesso tempo, la sua economia è cresciuta al punto da poter contribuire al proprio stesso sviluppo, riducendo gli esborsi degli altri Stati membri.

Una storia che, almeno dal punto di vista economico, sembrerebbe di successo.

Proprio l’esempio polacco, però, potrebbe suscitare (spero anche in voi) anche reazioni opposte: a Varsavia il PIL sarà pure aumentato, ma le recenti tensioni sulla stato di diritto con Bruxelles ricordano che non sempre democrazia e ricchezza vanno di pari passo.

Proprio pochi giorni prima che Putin ponesse in atto la sua volontà di aggredire l’Ucraina, la Corte di Giustizia ha pronunciato due sentenze (rese nei casi C-156/21 e C-157/21), le quali hanno segnato il radicale rigetto dei giudici europei del tentativo congiunto, di Ungheria e Polonia, di far annullare il Regolamento (Ue, Euratom) 2020/2092, relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione. Con queste due sentenze, i giudici di Lussemburgo hanno mostrato, ancora una volta, la loro posizione ferma e costante nel proteggere i valori scolpiti nell’articolo 2 del TUE, fra cui proprio lo stato di diritto.

A fronte della gravissima compromissione del regime di indipendenza dei giudici, da parte del governo polacco e ungherese, che in questi due Stati vede ormai il potere giudiziario totalmente sottomesso alle scelte del potere politico, la Commissione aveva proposto di adottare un Regolamento che le consentisse di sanzionare gli Stati membri non rispettosi dello stato di diritto tramite la sospensione o la cessazione dei finanziamenti europei: le “sentenze gemelle”, quindi, hanno confermato che il Regolamento 2020/2929 è ancora valido ed efficace e che il valore dello stato di diritto fa parte dell’identità stessa dell’Unione, quale ordinamento comune.

Da qualche anno sempre più osservatori, secondo me correttamente, ritengono che il cospicuo “allargamento a Est” dell’UE, compiuto fra il 2004 e il 2007, sia stato realizzato in maniera troppo frettolosa, inglobando Paesi che non erano maturi e legittimando, con cospicui fondi e appoggi politici, classi dirigenti che hanno poi proceduto a governare quegli Stati in maniera semiautoritaria. Polonia e Ungheria, ad esempio.

Nasce allora spontanea una domanda: chi ci assicura che un ulteriore allargamento a est non porti alla nascita di nuovi governi problematici, che usano i fondi europei per arricchire la propria classe di oligarchi, come l’Ungheria, o sfruttano il proprio potere di veto per bloccare riforme strutturali? La riforma del Regolamento di Dublino, sull’accoglienza dei richiedenti asilo, che avrebbe permesso all’Italia e alla Grecia di gestire in maniera più agevole il flusso dei migranti degli ultimi anni, non è mai stata approvata proprio per via del veto dei Paesi dell’Est, tradizionalmente ostili nei confronti dei migranti provenienti dal nord Africa e dal Medio Oriente.

Sono dubbi e perplessità che, fino a prima della guerra, circolavano anche nei confronti dell’Ucraina.

L’Ucraina, inoltre, è considerato un Paese arretrato sotto vari punti di vista e, per certi aspetti, ancora meno maturo dei Paesi Balcani che, ormai da anni, stanno cercando di entrare nell’Unione.

Secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sui paesi confinanti con l’Unione, l’Ucraina non ha una vera strategia per la lotta alla criminalità organizzata, mentre i principali giornali e le Tv continuano a essere di proprietà di un ristretto gruppo di persone.

La distanza culturale con l’Europa occidentale rimane molto marcata, per esempio, sul tema dei diritti per la comunità LGBT: un sondaggio del 2020 del rispettato Pew Research Center, mostra che, mentre nei Paesi dell’Europa occidentale la percentuale di persone secondo cui l’omosessualità debba essere accettata è superiore all’80%, in Ucraina la stima è intorno al 14%.

È innegabile, infine, come non siano neppure un ottimo biglietto da visita l’enorme gravità della corruzione nelle istituzioni, la cessione delle banche dati dei dati personali dei propri cittadini a Stati privi di una legislazione sulla privacy, oppure essere (ancora oggi) uno dei pochi Paesi al mondo che permette l’utero in affitto a fini esclusivamente commerciali. Entrando nell’Unione, inoltre, è inevitabile che l’Ucraina si trascinerebbe Georgia e Moldavia, con un’ulteriore complicazione per la gestione della macchina burocratica e politica europea.

Sul cosiddetto “effetto trascinamento” di altri Paesi nell’Unione, va ricordato come lo scorso 22 Aprile, la Commissione Esteri del Parlamento Europeo, s’è “rammaricata” perché l’Albania e la Macedonia del Nord siano ancora così lontane dal traguardo.

«Qualche giorno fa», racconta Piero Fassino, Presidente della Commissione Esteri della Camera, «l’ambasciatore macedone mi ha chiesto: scusate, ma per entrare in Europa dobbiamo farci invadere anche noi da Putin?».

La guerra ha cambiato le cose, ma nemmeno troppo: se da una parte ha ridotto alcune perplessità di natura politica sulla necessità di avvicinare, sempre più, l’Ucraina all’Unione Europea, dall’altra è evidente che a causa del conflitto l’Ucraina avrà bisogno di ancora più tempo per adeguarsi agli standard europei, dato che dovrà letteralmente ricostruire un Paese semidistrutto dagli attacchi della Russia. In quest’ottica non tutti sono convinti che avviare dei complessi e delicati negoziati, per entrare nell’Unione, sia la strada migliore da percorrere.

Fra le altre cose, lo status di candidato non porterebbe nemmeno grandi benefici dal punto di vista economico: per il periodo 2021/2027, l’UE ha stanziato un fondo da 14,2 miliardi per finanziare i Paesi candidati, o che aspirano a esserlo, già allocati a sette Paesi diversi. Per l’Ucraina, insomma, rimarrebbero solo le briciole.

In un articolo per Foreign Policy, l’ex funzionario della Commissione Larsen, che dal 2014 al 2019 ha lavorato come emissario dell’UE in Ucraina, ha argomentato che concedere lo status di Paese candidato a mezza penisola dei Balcani sia stato un errore da non ripetere. All’interno delle nazioni candidate ha prodotto una disillusione trasversale, che dura ormai da anni, e che «ha compromesso l’obiettivo delle istituzioni europee di dare degli incentivi alla classe politica locale per portare avanti le riforme». Negli Stati membri, invece, ha inasprito il fastidio dei funzionari verso «paesi candidati che fanno pochi e nessun progresso in fatto di riforme».

Il rischio, quindi, è che anche in Ucraina possa succedere una cosa del genere: garantirle lo status di candidato potrebbe suscitare aspettative irrealistiche, sia destro che fuori l’Ucraina, costringendo un Paese prostrato dalla guerra a condurre negoziato faticosissimi per la propria amministrazione, senza alcun vantaggio se non dal punto di vista simbolico.

Una soluzione potrebbe essere quella di sfruttare uno strumento, introdotto una ventina d’anni fa, cioè lo status di “potenziale candidato”, per poter tener agganciata l’Ucraina a una prospettiva europea senza costringerla a estenuanti e poco produttivi negoziati. È una categoria a cui, al momento, appartengono Kosovo e Bosnia-Erzegovina, due Paesi che però non hanno grandi speranze di entrare nella grande famiglia europea, nemmeno nel lungo periodo. Il rischio per l’Ucraina sarebbe più o meno lo stesso: scivolare in un limbo da cui sarà difficile uscire.

Oltre le dichiarazioni e le buone intenzioni, la strada da fare è ancora lunga, sia per l’Unione Europea, ma ancor di più per l’Ucraina.

Lascia un Commento