"Dunque, non saremo forse noi ad aver reso l’arte inutile? Per la società del progresso scientifico e tecnologico non c’è posto anche per il progresso morale, che si nutre di pensieri e parole, di umanità."

“Un mondo senza letteratura si trasformerebbe

in un mondo senza desideri né ideali né disobbedienza,

un mondo di automi  privati di ciò che rende umano un essere umano:

la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in un altro, in altri,

modellati dall’argilla dei nostri sogni”.

Mario Vargas Llosa.

“Nella vita moderna il superfluo è tutto” .

Oscar Wilde.

“E dopo? Che cosa farai? […] No, dico, a livello lavorativo, quali sono le opportunità  che offre la tua laurea?”.

Eccola qui, la domanda più fastidiosa del mondo, quella che puntualmente instilla in molti di noi il dubbio che le nostre passioni siano inutili.

Ma esistono passioni inutili? E chi decide cosa è utile e cosa non lo è? È evidente che il giudizio sia del tutto eteronomo e guai a metterlo in discussione nella società del Capitalocene.

Le passioni inutili sono quelle che, semplicemente, non creano profitto né guadagno. Quanto vale del tempo libero  in confronto al totem dell’utilitarismo? Come si quantifica la gratuità del sapere in una società che ha monetizzato qualsiasi tipologia di esperienza umana?

Agli occhi di qualcuno anche questa serie di domande potrà sembrare l’emblema dell’inutilità. Eppure, la mia passione per tutto ciò che ha dignità e non prezzo, mi ha spinto a riflettere sul tema innumerevoli volte.

Le considerazioni  sull’argomento non sono certamente nuove, tanto che si potrebbe risalire all’antica contrapposizione di origine latina tra l’otium e il negotium: quest’ultimo si definisce come negazione del primo termine ed indica tutto ciò che non è tempo libero, occupazioni e attività pubbliche. Fino all’epoca Ciceroniana il perfetto cives romano era colui che era in grado di assicurare un buon equilibrio tra otium e negotium, mentre negli scritti di Seneca l’otium assume già un valore diverso, essendo ritenuto fondamentale per la coltivazione dell’arte filosofica.

Solo per darne un’idea, il passo sotto citato si intitola proprio La necessità dell’ozio:

Ti chiedo a quale stato il saggio potrà accostarsi. A quello ateniese, dove Socrate è condannato e Aristotele fugge per non esserlo? In cui l’invidia soffoca le virtù? Mi dirai certo che a questo stato il saggio non può accostarsi. Allora a quello cartaginese, dove c’è una perpetua guerra civile e la libertà è nemica dei migliori, dove c’è disprezzo massimo per il bene e la giustizia, crudeltà inumana verso i nemici e ostilità perfino verso i concittadini? Fuggirà anche da qui. Anche volessi esaminarli tutti non ne troverei nessuno che il saggio possa sopportare o che possa sopportare il saggio. E se non si trova nessuno stato come noi ce lo immaginiamo, l’ozio comincerà a diventare necessario per tutti, perché l’unica cosa che gli si poteva preferire non si trova da nessuna parte.

L’alternanza dei due concetti accompagna silente gran parte della riflessione filosofico-letteraria occidentale fino ai giorni nostri. In un passato non troppo remoto, durante una conferenza datata 1961, Eugène Ionesco denuncia con chiarezza che «l’uomo moderno, universale, è l’uomo indaffarato che non ha tempo, che è prigioniero della necessità, che non comprende come una cosa possa non essere utile» e, soprattutto, «che non comprende neppure come, in realtà, proprio l’utile possa essere un peso inutile, opprimente». Per il grande drammaturgo, infatti, «se non si comprende l’utilità dell’inutile, l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte».

Dunque, non saremo forse noi ad aver reso l’arte inutile? Per la società del progresso scientifico e tecnologico non c’è posto anche per il progresso morale, che si nutre di pensieri e parole, di umanità. Abbiamo trasformato la scuola, tempio di cultura e confronto, in un’azienda che deve sfornare competitor, non liberi pensatori;  abbiamo convertito il lavoro, attività che restituisce dignità, a logiche di sfruttamento e subordinazione; abbiamo reso l’uomo un non-uomo, appagato nel proprio bisogno di non essere libero. Perché la libertà richiede amore per la conoscenza, per il sapere. E il sapere, proprio come l’amore, se è reale,  è sempre disinteressato. La similitudine amorosa si presta bene anche nel spiegare perché determinate decisioni sfuggono dalla logica del calcolo.

Non si sceglie chi amare proprio come non si sceglie per cosa provare passione. Qualcuno cresce sviluppando la passione per l’ingegneria, qualcun altro per la filosofia, ed è giusto e bellissimo così. Quello che non trovo giusto- né tantomeno bello- è che il laureato in ingegneria abbia attualmente 99 possibilità in più su 100 di trovare un  lavoro gratificante rispetto al laureato in filosofia.

Chi ha deciso che la società dovesse basarsi solo ed esclusivamente sulla crescita materiale? Perché tutte le attività lavorative che hanno a che fare con la crescita spirituale dell’umanità non vengono considerate degne di un’adeguata remunerazione?

A queste domande senza risposta se ne aggiunge una ancora più importante: perché – mi chiedo- non possiamo considerare queste discipline anche “socialmente utili”? Mi spiego meglio.

Altrove nel mondo la transizione verso modelli societari basati sull’applicazione dell’intelligenza artificiale è già ampiamente iniziata. Si potrebbe a primo acchito pensare che non ci sia nulla di più distante di questo dalla filosofia, eppure nelle prime sperimentazioni eseguite sul cervello o sul cuore artificiale, si è ritenuto essenziale l’ausilio di un team di filosofi che guidassero il processo nella definizione della “mente” e del “significato”.  

Del resto, quando si è trattato di affrontare la modellizzazione dell’attività mentale e la definizione del significato,”la teoria dell’intelligenza artificiale si è imbattuta nelle medesime difficoltà in cui si è imbattuta la riflessione filosofica”.

Anche nel contesto aziendale l’approccio per così dire “umanistico” inizia ad essere rivalutato. Sempre più spesso si mette in discussione la preminenza di un sapere specialistico rispetto all’assunzione di figure che potremmo definire “multi-potenziali” o “cognitivi orizzontali”. Artisti, biologi, filosofi, sociologi e così via potrebbero ritrovarsi  a giocare un ruolo di prim’ordine nel coordinamento di modelli organizzativi in grado di mettere in relazione tra loro tanti settori profondamente diversi e lontanissimi, all’apparenza difficilmente accostabili.

Tutto ciò sta già avvenendo nei campi della bio-meccanica o della bio-medicina, dove non a caso si tenta di dare risposta a questioni che impongono una visione ampia e armonizzante del reale.

Le discipline umanistiche sono proprio quelle che insegnano a non ragionare per compartimenti stagni, che invitano a restituire la complessità piuttosto che la banalità. Sono quelle che, vista la gravità e l’urgenza delle attuali sfide globali, dovrebbero essere finalmente rivalutate.

Se non faremo niente per preservare e curare l’arte, i saperi, presto o tardi ci abitueremo – sempre che non sia già avvenuto- a vivere in un mondo senza bellezza. Allora si, che verremo schiacciati dal peso delle cose inutili.

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