Lundini, una pezza sulla TV italiana

"Imboccando una strada poco battuta dalla TV italiana, e capovolgendone come un calzino il linguaggio dominante, il programma Una pezza di Lundini non offre solo una gustosissima parentesi comica nella programmazione serale Rai, ma cerca di dare, della TV medesima, una lettura critica, anzi meta-critica."

Più che del suo pubblico, la televisione è specchio di chi la fa. E se chi la fa sono quelle stesse persone che, in un modo o nell’altro, determinano il destino di un Paese, allora si avrà che la televisione è lo specchio deformante di un’intera classe dirigente.

Giusta o sbagliata che sia questa intuizione, è innegabile che la TV italiana soffra degli stessi mali di cui soffre l’Italia fuori dagli schermi. Le reti televisive sono in mano a pochi potenti imprenditori, e anche quelle che dovrebbero essere pubbliche sono costantemente sotto lo scacco degli interessi dei partiti, non di rado guidati, a loro volta, da quei medesimi imprenditori. L’età media delle personalità di spicco, dai direttori dei canali fino ai conduttori dei programmi di punta, si aggira, a occhio, tra i 50 e i 60 anni, mentre le disparità di genere, di orientamento sessuale, di etnia e di religione, ancora piuttosto evidenti nell’immaginario mainstream, sono in fin dei conti le stesse che, più in grande, intossicano il tessuto sociale italiano. Se infine aggiungiamo che i programmi TV si ripetono quasi identici da una trentina d’anni a questa parte, con un’omologazione dei format e dei linguaggi che ha reso praticamente equivalenti le varie emittenti televisive, il quadro generale di quello che è ancora il mezzo principale di informazione e di intrattenimento di molti italiani non è affatto roseo. Assomiglia, anzi, a uno scenario da dopobomba.

Ma ecco, appunto, il linguaggio. A prescindere dalla varietà dei format proposti (che dai primi anni 2000 si dividono piuttosto stabilmente in fiction, talk shows, reality shows, talent shows e telegiornali, con qualche ibridazione qua e là), la situazione più sconsolante è quella della retorica media dei programmi mainstream. Sentimentalismo, paternalismo, sessismo bonario o velato razzismo sono gli ingredienti principali di alcuni dei titoli più popolari. Quante volte abbiamo visto sedicenti psicologi pontificare sui giovani e la droga, o sui giovani e i social network, senza però mai interpellare direttamente un giovane? Quante volte politici o sociologi, spesso senza contraddittorio, hanno provato a convincerci di essere sull’orlo del collasso del mondo occidentale per come lo conosciamo, magari prendendo a esempio episodi marginali e insignificanti come le sempreverdi pseudo-notizie sull’abolizione dei presepi nelle scuole elementari? E ancora: come si parla, quando se ne parla, di disforia di genere o di transessualità? Male. Come si affrontano, quando li si affrontano, i temi legati alle discriminazioni razziali? Peggio. Che posizioni si prendono, quando se ne prendono, ogni volta che si pretende di instaurare un dibattito sulla violenza di genere e sulla cultura dello stupro? Posizioni a dir poco ambigue, o addirittura non posizioni, come dimostra il caso del recente scontro in diretta tra la psicologa Stefania Andreoli e la giornalista Giulia Sorrentino. Il quale scontro, a sua volta, dimostra come il paradigma del confronto democratico, vale a dire del libero e cordiale dibattito da sponde opposte, sia spesso forzato e manipolato a puro scopo sensazionalistico.

Il quadro appena abbozzato, sicuramente impreciso e lacunoso, è utile a capire come si collochi, nell’economia generale della TV italiana, un programma apparentemente estraneo a tutto questo, vuoi perché comico e d’intrattenimento, vuoi perché breve e volutamente marginale “pezza” della seconda serata di Rai 2: Una pezza di Lundini, appunto, ora interamente disponibile sulla gratuita e fin troppo bistrattata piattaforma Rai Play.

Romano di 34 anni, Valerio Lundini ha fatto gavetta come presenza minore di alcuni programmi Rai, sia televisivi che radiofonici. Comico di formazione, con un passato da stand-up comedian, il suo stile si riconosce per il registro surreale e stralunato delle battute, per il ricorso generoso a pun e a giochi di parole di vario tipo, per la mimica facciale quasi inesistente che funge da assurda cassa di risonanza (come quando, impassibile, chiede a un suo ospite: «Qual è il posto più strano in cui hai ucciso?»). Ad affiancarlo nella conduzione della sua Pezza – oltre ai membri della band Vazzanikki (di cui Lundini è tastierista e cantante) e a una serie di spalle dai nomi improbabili (Torpedine, Tenente Silvestri, Signora Anna…) – c’è la trentaseienne Emanuela Fanelli, attrice di teatro dal curriculum cinematografico e televisivo già piuttosto corposo, per quanto ancora poco nota al grande pubblico (ma assolutamente da vedere nella serie Sky Dov’è Mario?, sceneggiata dal compianto regista di Boris Mattia Torre e con protagonista Corrado Guzzanti).

Il format di Una pezza di Lundini è quasi impossibile da descrivere. Di base, il programma (registrato, ma beffardamente presentato come diretta) sembra configurarsi come un talk show tra i tanti. Ogni puntata ha il suo ospite d’eccezione, pescato dal bacino delle very important people del momento: Lundini, conduttore polito e politicamente corretto, vero uomo d’altri tempi dalla cordialità ostentatamente e falsamente disinteressata, strano incrocio tra Mike Bongiorno e Pippo Baudo, fa sedere e garbatamente acclimatare i suoi vip e li intervista con le classiche domande su vita e carriera, a tratti banalizzate fino alla stupidità più plateale (gettonatissima: «Qual è il tuo colore preferito?»). Poi, però, su questa base, una regia schizofrenica innesta ogni sorta di stramberia: gli invitati sono introdotti da brevi clip che distorcono completamente la loro immagine (tanto per dirne una, Caterina Guzzanti è presentata come un «famoso filosofo con la barba» che «terrorizzò i suoi lettori con la teoria del plusvalore»); le interviste, in una climax ascendente, si fanno sempre più grottesche o vengono interrotte da eventi esterni e fatte slittare su binari narrativi imprevisti (come la divertentissima intervista a Parenzo e Cruciani, lentamente trasformata in uno zombie movie con tanto di sparatorie e dettagli splatter); collegamenti con inviati esterni fanno circolare notizie false e falsamente allarmistiche, e così via, per venti minuti che possono contenere una quantità esorbitante di codici espressivi.

Se questo è il grado zero del programma, che potremmo definire come una sorta di meta-parodia del linguaggio televisivo contemporaneo, curata fin nei più piccoli dettagli (notare, ad esempio, quanto spesso Lundini descriva Fanelli come «Bella e brava», o «Brava, ma anche bella», non diversamente da come è solito fare Gerry Scotti con le sue concorrenti), di certo la Pezza non si esaurisce qui. Perché l’ambizione di Lundini e Fanelli non è solo decostruire i meccanismi più abusati della TV italiana, combattendo lo spettacolo con uno spettacolo straniato (l’intervista a Enzo Salvi è un momento praticamente brechtiano) ma sostituirli con una narrazione alternativa che tolga terreno sotto i piedi degli spettatori, che li faccia sentire protagonisti di un mondo parallelo e perturbante, in cui tutto è, al contempo, realtà e finzione.

Il punto più alto di questa contro-narrazione lo raggiunge proprio Emanuela Fanelli. Presentatasi fin dalla prima puntata come «attrice teatrale», Fanelli sfrutta ogni punto morto del programma per autopromuoversi e proporre al pubblico i suoi progetti personali. Progetti assurdi, certo, ma che traggono la propria carica critica da una certa verosimiglianza di fondo. Così, Voci di donne diventa uno spettacolo femminista basato sui cliché e sugli stereotipi del femminismo più addomesticato e istituzionale; i vari sketch comici in cui letteralmente trascina di peso Lundini non fanno ridere, ma non lo fanno nella stessa maniera in cui non fanno ridere i siparietti dei varietà di prima serata (e quindi sì, fanno ridere, se sei bravo a cogliere le allusioni, per esempio alla coppia Fazio-Littizzetto); le clip promozionali per il turismo a Roma sono infarcite di stereotipi che in altra circostanza sarebbero stucchevoli e zuccherosi.

Ma il capolavoro di Fanelli (e delle menti creative dietro questo programma) è il finto film A piedi scarzi, sorta di incrocio tra il neorealismo alla De Sica e il pop romanesco di Suburra e affini, che Lundini presenta al pubblico come uscita imminente nelle nostre sale. E allora giù di cartelloni promozionali (ma leggete attentamente le scritte più piccole…), giù di interviste autocelebrative in cui A piedi scarzi è promosso come «Un film su Roma, finalmente!», perché «non se ne poteva più» del monopolio del «dialetto molisano» al cinema. Ma soprattutto giù di clip e di finti backstage, che neanche a dirlo fanno il verso al filone sulla «periferia romana», con Fanelli madre un po’ coatta e Alessandro Borghi (proprio lui!) sottoproletario in eterna canottiera bisunta. Attorno a loro, qualcosa come quattro o cinque figli piccoli, che però, nonostante la leggerezza sognante dell’infanzia, opportunamente sottolineata, «Stanno scarzi… stanno sempre scarzi!». E l’estetizzazione della vita marginale e indigente delle periferie, su cui il mercato televisivo e cinematografico ha lucrato e continua a lucrare, è presto servita! Se sequel ci sarà, ci fa sapere Fanelli, si chiamerà Co ‘na scarpa e ‘na ciavatta.

Le tante puntate di Una pezza di Lundini hanno il merito di non incappare nella ripetitività, né nell’autocompiacimento. Momenti di stanca ce ne sono, momenti poco riusciti pure, ma nel complesso, le ambizioni, altissime, sono perfettamente sostenute da una realizzazione quasi sempre all’altezza, a volte decisamente geniale. Perché, imboccando una strada poco battuta dalla TV italiana, e capovolgendone come un calzino il linguaggio dominante, la Pezza non offre solo una gustosissima parentesi comica nella programmazione serale Rai, peraltro già diventata di culto nel web (a riprova del target cui si riferisce, lontanissimo da quello mainstream), ma cerca di dare, della TV medesima, una lettura critica, anzi meta-critica. Perché, alla fine (e che finale! Guardare per credere…) non si può dire che lo spettatore ne esca semplicemente divertito, o doverosamente intrattenuto. Chiuso il sipario sullo studio improvvisato di Lundini-Fanelli, letteralmente ancora incellofanato, allo spettatore resta infatti una strana inquietudine, come se sotto le acrobazie concettuali, i colpi di scena, gli esilaranti micro-racconti che si succedono e inseguono quasi casualmente, ci sia un qualcosa di vero, solido e inoppugnabile, che riguarda tutti noi e la mediasfera in cui siamo costantemente immersi. Se questo qualcosa darà i suoi frutti, a cominciare da un’auspicabile (e probabile) seconda stagione, lo vedremo con il tempo. Per ora, possiamo solo dire che, in una TV ostinatamente chiusa al nuovo e alle pressioni più urgenti del presente, cocciutamente bloccata su una celebrazione di sé e sul rassicurante mantenimento dello status quo, politico, ideologico, immaginario, Una pezza di Lundini rappresenta una piccola ma invitante, surreale oasi.

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