Lo specchio distorcente della società: quando l’immagine del nostro corpo smette di somigliarci

"I disturbi dell'immagine corporea non dipendono tanto o, almeno, non soltanto dalla singola persona che ne è affetta, ma da istanze estetiche sociali che, per alcun*, si trasformano in dolorosissimi ed insopportabili fardelli".

Cosa c’è al mondo di più familiare del nostro corpo?

A meno di patologie, di disturbi e di altre forme di compromissioni più o meno reversibili, noi sentiamo il nostro corpo come nostro dal primo vagito all’ultimo rantolo.

E questo accade perché, di fatto, noi siamo il nostro corpo.

All’interno della discussione scientifica e – mi si conceda una semplificazione alquanto grossolana – di vaste frange filosofiche ed epistemologiche, la diade cervello/mente-corpo ha perso di credibilità.

Senza scomodare per forza Dennett o Putnam, l’esperimento dei cervelli in una vasca, alla mercé di uno scienziato fuori di testa, è per l’appunto solo questo: un esperimento mentale che evidenzia da sé le sue problematicità autoconfutatorie.

Con buona pace dei complottisti, non siamo materia grigia in salamoia, ancorata a degli elettrodi, né, tantomeno, viviamo in Matrix, ma siamo e viviamo in un ambiente, e possiamo essere e vivere in un ambiente proprio perché siamo incarnati.

Se dovessimo dare per buona l’ipotesi che la mente sia embodied, la volontà di scindere il cervello dal corpo non solo sarebbe controproducente, ma una vera e propria baggianata, semplice onanismo per metafisici annoiati.

Senza entrare nel merito della questione, ci basti ricordare che il corpo plasma il nostro cervello più di quanto sembrerebbe a primo acchito (a tal proposito si pensi soltanto a quanto la stazione eretta e la conseguente liberazione della mano abbiano modificato la struttura del cervello dell’homo sapiens ndr).

In ragione di questa continuità, il nostro cervello mappa costantemente il nostro corpo.

Dato che il cervello elabora in settori (Damasio, 1999) separati i diversi input provenienti dal corpo, l’integrazione risulta essere un aspetto fondamentale per una mappatura unitaria del corpo.

In soldoni, quindi, la rappresentazione corporea non è altro se non un insieme integrato di configurazioni neurali separate, che mappano, istante per istante e in parallelo, gli aspetti più stabili della struttura fisica di un determinato organismo.

Se si ha bene in mente questo concetto, non sarà difficile fare un passo successivo, introducendo un termine ulteriore, ossia lo “schema corporeo”.

Lo schema corporeo, un concetto che sta molto a cuore ai fenomenologi da Merleau-Ponty in poi, presenta un aspetto su cui vorrei porre l’accento e che si aggancia a quanto detto finora, ossia la consapevolezza pre e ante-riflessiva del nostro corpo.

Per dirla alla Gallagher, “i processi schematici corporei sono responsabili del controllo motorio e comprendono capacità, abilità e abitudini senso-motorie che rendono possibile il movimento e il mantenimento della postura”.

Perché un essere umano agisca nel proprio ambiente in modo funzionale e intenzionale non ha bisogno di monitorare coscientemente e di percepire il proprio corpo in un modo tale per cui esso venga assunto come oggetto intenzionale.

In altre parole, perché una data azione compiuta da noi vada a buon fine è necessario che il nostro corpo non ci sia di intralcio e che, quindi, sia trasparente.

Ad esempio, se io volessi afferrare la bottiglia che è posta sul tavolo di fronte a me, non starei tanto attenta alla configurazione assunta dalla mia mano, mentre si prepara ad afferrarla, ma alla bottiglia che è posta sul tavolo di fronte a me.

In questo senso, dunque, lo schema corporeo si discosta da quella che potremmo definire invece come l’“immagine corporea”.

Diversamente da ciò che accade per lo schema corporeo, perché si possa parlare di immagine corporea è obbligatorio considerare una componente strettamente riflessiva e percettiva del corpo.

Quando al mattino mi guardo allo specchio, non sono concentrata sullo specchio in sé, ma sul riflesso che lo specchio rimanda di me.

Al contrario di quanto sia stato sostenuto dagli empiristi di primo pelo, la percezione visiva non è una semplice sommatoria di segnali trasdotti dalla retina né un processo di sintesi additiva di sensazioni elementari.

Infatti un simile processo presuppone componenti creative ed è influenzato da convinzioni, convenzioni ed emozioni.

Quest’ultima caratteristica dell’elaborazione visiva è quanto mai evidente quando si tratta di percepire noi stessi.

Nonostante la familiarità che noi tutt* abbiamo con il nostro corpo, siamo scarsamente oggettiv*, quando si tratta della nostra immagine.

Per alcun*, addirittura, guardarsi allo specchio non è una routine tra le altre, ma una sofferenza intollerabile.

A tal proposito, si pensi solo all’incidenza che hanno i disturbi del comportamento alimentare soprattutto tra gli e tra le adolescenti.

Per citare i più noti, la bulimia e l’anoressia sono la conseguenza di una percezione alterata della propria immagine corporea, che porta chi ne è affetto a una preoccupazione patologica per il proprio peso.

Da diversi studi, condotti soprattutto negli Stati Uniti e in Canada, è emerso che molti dei catalizzatori che facilitano l’insorgenza di questi disturbi sono componenti socio-culturali.

È alquanto emblematico che molti psicologi utilizzino in questi casi un termine come “sindromi culture bound”.

Nel 1990, Gordon ha addirittura mostrato come i disturbi del comportamento alimentare presentino delle caratteristiche tali per cui hanno sempre più l’aspetto di una vera e propria epidemia sociale.

Inoltre, negli ultimi anni, – dati alla mano – si è stimato che l’età di insorgenza di questi disturbi si stia ulteriormente abbassando, interessando sempre di più bambin* e preadolescenti.

Un altro disturbo che sta diventando via via sempre più comune, specie tra i giovani, è il dismorfismo corporeo.

Dall’anamnesi risulta che i pazienti che presentano tale disturbo sono letteralmente ossessionati da uno o più difetti del proprio aspetto fisico che non esistono o che sono talmente lievi da non essere notati da altri se non da loro.

L’avvento dei social network e il loro uso massivo ha provocato, soprattutto tra gli utenti più giovani e, quindi, con una mente più plastica e plasmabile, una drammatica impennata di patologie che hanno a che fare con l’immagine corporea.

Si pensi solo al numero spropositato di filtri distorcenti e standardizzanti che tutt* quant* noi abbiamo utilizzato almeno una volta nella vita.

Dal più soft Paris di Instagram, che ci rende vellutat* ed etere*, si passa a filtri ben più pesanti, che rimpolpano le labbra, rimpiccioliscono il naso, aumentano la grandezza degli occhi, alzano gli zigomi e limano l’ovale del viso.

Dunque, i disturbi, come il dismorfismo corporeo, non dipendono tanto o, almeno, non soltanto dalla singola persona che ne è affetta, ma da istanze estetiche sociali che, per alcun*, si trasformano in dolorosissimi ed insopportabili fardelli.

E, a percepire un simile pressing, non sono solo le donne o gli e le adolescenti.

Ad esempio, è emerso che ben l’84% degli uomini omosessuali senta su di sé l’obbligo di dovere avere a tutti i costi un bel corpo per essere accettato dalla società. Un dato, a mio avviso, sconvolgente è che il 68% degli uomini gay sia stato oggetto di un confronto basato sul mero aspetto fisico.

La riproposizione continua di standard estetici irraggiungibili e costruiti ad hoc dalla comunità e dai media causa irrimediabilmente un’alterazione più o meno significativa della propria immagine corporea che, così, finisce per distorcersi e, nei casi più gravi, per non somigliare più a quello che è effettivamente il nostro corpo.

Lo specchio, quindi, in molte – troppe – occasioni, non ci restituisce quello che siamo in realtà, ma quello che la realtà vorrebbe che fossimo; in altre parole come le concezioni e le imposizioni sociali ci impongono di essere.

Riappropriarci della nostra immagine e, di conseguenza, del nostro corpo è una rivoluzione che tutt* noi dovremmo tentare di compiere, fosse anche smettendola una volta per tutte di piallarci il viso con dei filtri innaturali, che ci rendono dei semplici oggetti di consumo e non delle persone uniche nella loro diversità.

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