1 novembre 2020, l’Italia registra 29.907 nuovi contagi che porta il computo totale degli attualmente positivi a 378.129.
Il bollettino odierno, inoltre, riporta 96 nuovi ingressi in terapia intensiva che giungono così a 1.939: la curva del contagio si arrampica vertiginosamente su un muro di paure, ansie, vite.
La tanto temuta, sottovalutata, prevista, imprevista seconda ondata è arrivata.
Non siamo neppure lontanamente vicini alla vetta di questa fatale arrampicata, eppure l’Italia si spacca, si frammenta, litiga, manifesta, tutti alla spasmodica ricerca di un colpevole.
Ma andiamo con ordine.
L’imputato principale è il Governo, assediato su tutti i fronti: per quel che ha fatto così come per quel che non ha fatto.
In tema di facere, il peccato originale che si contesta alla banda Conte è di aver imposto delle restrizioni “eccessive”. Tengo a sottolineare come chi scrive abbia difeso strenuamente, durante e dopo il lockdown, l’operato di un Governo e di un uomo che hanno dovuto affrontare la peggiore crisi sanitaria della storia d’Italia senza nessun reale preavviso.
Eccessiva la riduzione della didattica frontale mantenuta solo per le scuole primarie.
Eccessive le restrizioni imposte ai servizi di prossimità come bar e ristoranti che devono abbassare le saracinesche alle ore 18:00.
Eccessivo l’obbligo imposto a teatri, cinema ed altre attività del comparto culturale, di fermare le loro attività.
Eccessivo il divieto di praticare sport di contatto finanche a livello amatoriale e di chiudere palestre e piscine.
Insomma, tutto quanto disposto nell’ultimo DPCM (24 ottobre), in attesa di quello che sarà emesso a breve, è eccessivo.
Per quanto riguarda, invece, quel che il Governo ha mancato di fare, l’elenco è vicino all’essere infinito.
In materia di sanità, nonostante le criticità sciaguratamente evidenziate dalla prima ondata di Sars-CoV-2, l’Italia si sveglia ancora impreparata su due fronti: ciò che attiene l’aspetto preventivo (in questo senso, ad esempio, il numero di tamponi processabili a livello nazionale è ancora troppo basso a causa della carenza di laboratori e materiale per poter tracciare efficacemente il contagio); e ciò che attiene quello strutturale (era stato previsto un significativo incremento ed implementazione della struttura sanitaria nazionale che non è mai stato posto in essere).
Potremmo, per fare un esempio e rendere così palpabile il ritardo, fare specifico riferimento ai medici dell’Usca che dovrebbero controllare i positivi direttamente a casa invece di intasare gli ospedali.
Nell’area urbana di Milano, che conta circa 3 milioni di abitanti, oggi sono attive 25 unità a fronte del previsto fabbisogno di 130.
Per quanto attiene la scuola, è sintomatico – termine infelice in questo periodo – come, nonostante la morsa del virus si sia allentata nei mesi estivi (da maggio a settembre intercorrono ben 4 mesi), l’inizio delle attività scolastiche sia stato procrastinato per ritardi nell’adeguamento delle strutture alle nuove misure necessarie per garantire un livello di rischio accettabile. Il rischio zero, oggi possiamo dirlo con un discreto grado di certezza, non esiste.
A tal riguardo fa quasi sorridere come gli esperti chiariscano (davvero lo scopriamo a novembre 2020?) come questo agente patogeno sia a suo agio tanto da esprimere al massimo la sua capacità infettiva in ambienti chiusi e scarsamente areati/ventilati. Vedasi lo studio pubblicato da El Paìs qualche giorno fa e ripreso il primo novembre dalle maggiori testate nostrane.
In relazione ai trasporti, la questione è altamente complessa.
Da un lato troviamo le raccomandazioni del C.t.s. che fissavano all’80% il limite di sfruttamento dei posti nei mezzi di trasporto pubblico; dall’altro, la palese carenza sinergico-organizzativa tra gli stakeholders in gioco.
Era stato dapprima suggerito e poi accolto con proclami l’invito ad attuare una politica di scaglionamento di orari scolastici.
Ciò a cui si è assistito è stato la distribuzione degli ingressi tra le 8 e le 9 e mezza del mattino, e stop.
Il risultato è una palese e pericolosa congestione di metro, tram, bus e quant’altro appartenga all’apparato del trasporto pubblico, soprattutto urbano.
Del resto, il tanto vituperato Indro Montanelli così rispondeva alla domanda circa quale fosse la natura dei suoi connazionali: “l’Italia”, sosteneva Montanelli, “è un paese di contemporanei”.
E così le carenze e le indecisioni del Palazzo hanno dato forza e vigore ad un malumore crescente che s’è fatto carne e rabbia ed urla e schianti di vetrine infrante.
Un malumore cavalcato da pletore di no-vax, complottisti e negazionisti che hanno organizzato manifestazioni, pacifiche e non.
Mal si comprende, però, quale sia la pertinenza tra le addotte mancanze di un Governo rispetto ad una risposta tardiva e male organizzata ad un virus e la guerriglia urbana.
Ancor più oscura ed imperscrutabile, agli occhi di chi scrive, è la colpa dei grandi marchi della moda che hanno visto assaltati i propri punti vendita da orde di manifestanti inferociti.
Chissà, forse costoro sono stati risparmiati dal crollo mondiale dell’economia e noi non ce ne siamo accorti.
I fatti, dunque, ci raccontano un governo che, nel tentativo di mantenere un equilibrio tra sicurezza sanitaria ed economia, ha mostrato un agire disorganico, quasi ambiguo, che ha fatto sprofondare la cittadinanza nella più totale incertezza.
È meravigliosamente auto-assolutorio, però, riversare tutte le colpe sulla politica, nei confronti del “sistema”.
In verità, sfruttando le rime di un noto cantautore romano, “Quando un Giudice punta il dito contro un povero fesso, nella mano stringe altre tre dita, che indicano sé stesso”.
Ci troviamo innanzi ad un’epidemia globale che ha indistintamente colpito qualsiasi Stato del pianeta (con alcune felici e fortunate eccezioni).
L’attacco è ancora portato da quel virus che a marzo ci aveva fatto scoprire capaci di unità nazionale, capaci di soffrire per il bene comune, capaci di sacrificarci per tornare il prima possibile all’agognata normalità.
L’altra faccia della medaglia, però, racconta una sciagurata estate all’italiana fatta di viaggi all’estero e di discoteche stracolme (aperte al grido de “il virus è morto”), di noncuranza delle regole di distanziamento ed attenzione, di giovani che in qualità di asintomatici portatori sani hanno diffuso il virus a scuola, nei bus, sui tram, ovunque.
Racconta di un popolo che difende cinema e teatri come se non fossero due mercati in fortissima crisi da oltre un lustro. Mai, in vita, ho assistito a manifestazioni tanto vigorose in difesa di questi due strumenti di diffusione della cultura, ma oggi sembrano aver assunto il valore di imprescindibile per il belpaese.
I mesi appena trascorsi ci hanno lasciato un atteggiamento assolutamente sprezzante del pericolo in ossequio alle libertà concesse dal Governo in ragione di una situazione epidemiologica che con sacrificio e dolore eravamo riusciti a creare.
Abbiamo colpevolmente dimenticato le foto di infermieri e medici distrutti dalla lotta al virus, il video dei camion dell’esercito che trasportavano i morti che Bergamo stava piangendo, il dolore di chi aveva perso i suoi cari senza neanche poterli salutare.
“L’Italia è un paese di contemporanei” ed oggi ci svegliamo incapaci di effettuare una giusta valutazione circa la realtà che ci circonda.
Eppure ci troviamo qui.
Ieri l’Italia ha registrato 29.907 nuovi contagi, che porta il computo totale degli attualmente positivi a 378.129 e 96 nuovi ingressi in terapia intensiva che giungono cosi a 1.939.
Questa è la situazione attuale, questi i dati su cui l’Italia e gli italiani devono riflettere, questo l’abisso che stiamo guardando.
Lo stato delle cose pretende da noi lucidità, tenacia, sacrificio.
Cristallizza come le manovre disarticolate del Governo – tutte le democrazie del mondo hanno evidenziato questa lentezza nella risposta alla crisi e questa sottovalutazione della seconda ondata – siano figlie del desiderio di mantenere l’equilibrio tra sanità ed economia, del dato che l’Italia e gli italiani (moltissimi purtroppo) non sono nelle condizioni economiche di sopportare un altro stop.
Del resto, come avrebbe reagito il cittadino se il Governo avesse imposto un fermo quando il numero di contagi si aggirava intorno ai 2000 al giorno?
La realtà statistica e l’esperienza, però, ci suggeriscono che il procrastinare decisioni difficili dinanzi ad una situazione epidemiologica tanto grave è una scelta potenzialmente letale per una significativa fetta della popolazione.
A questo punto ci si trova a metà strada tra il saper soffrire, nuovamente tutti insieme con prudenza, attenzione oppure lascarsi travolgere dall’istinto e dalla paura di non farcela.
Del resto, un’altra verità è che qualsiasi manovra venga varata, gli anni che ci aspettano saranno caratterizzati da una significativa sofferenza economica, sociale e psichica: inutile fingere che non sia così.
Ed allora, non sarebbe forse più opportuno indossare nuovamente il mantello del sacrificio e della consapevolezza?
Quelli che ci aspettano saranno mesi di lotta e resistenza, non mangeremo il panettone insieme ai nostri cari, non potremo scambiarci gli auguri abbracciandoci e baciandoci.
Non potremo spostarci al caldo o verso i nostri parenti e amici lontani. La realtà del mondo nel 2020, che piaccia o meno, è questa.
E difficilmente avremo una cura che miracolosamente ci permetterà di fare tutto “normalmente” entro la fine di questo sciagurato anno, anche se la speranza non dovrà mai abbandonarci.
La realtà, la verità è che dovremo soffrire fino a che la scienza e la primavera ci permetteranno di tornare al nostro quotidiano.
Questa volta, speriamo, definitivamente.
Avvocato, classe 1987, nasce nella provincia di Cosenza e qui completa gli studi classici.
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Commerciale Bocconi, svolge la pratica forense tra Cosenza e Milano e vive per un periodo negli States per un tirocinio in un prestigioso studio legale internazionale.
Opera nel settore legale in terra natìa da diversi anni.
Appassionato di scrittura, letteratura, musica, calcio e pesca sportiva