Avete mai fatto i conti con la paralizzante sensazione di non sentirvi mai abbastanza?
Con quel senso di smarrimento che ti accompagna ogni qualvolta ti attingi a fare qualcosa per te, ad amare qualcun*, a cambiare lavoro, a scegliere chi diventare.
Questa sensazione rende difficile tutto ciò che ami fare, anche scrivere un articolo. Persino ad amare e a lasciarti amare.
A vivere la vita, insomma.
Beh, io lo ammetto! Sono una di quelle che lo fa, se lo ripete, da sempre. Vittima, oggi consapevole, del “non sentirmi mai abbastanza”.
Questa percezione è stata fin da piccola la mia compagna di giochi.
La mia amichetta “immaginaria” che non mi abbandona nemmeno adesso, che di anni ne ho trenta e ho smesso di giocare.
Sono grande, mi dicono, eppure io continuo a crederle, a tenerle la mano. A vederla.
E così, per combattere questa senso di nullità congenito, da bambina inventavo mille vite parallele grazie alla via di fuga più grande: la fantasia.
Ma quale bambin* non lo ha mai fatto?
Un giorno mi immaginavo giornalista sportiva: mi chiudevo in cameretta, aprivo la webcam e conducevo il mio TG, con le ultime news di calcio mercato. Le notizie erano vere, quelle non le inventavo, perché ho sempre creduto nel potere delle verità pronunciate agli altri.
Il giorno successivo ero la farmacista del quartiere. Raccoglievo tutti i farmaci che avevo in casa ed accuratamente li riponevo nei cassetti della mia scrivania, trasformandola così in un vero bancone.
Chissà come mai giocassi proprio a fare la farmacista.
Mi faceva sentire utile forse, curare qualcuno. Ma non come fanno i medici. Come fanno i medici no!
Non ho mai voluto essere una chirurga. Volevo prendermi cura degli altri come fanno le farmaciste.
Tu porti la lista delle medicine che ti servono a star meglio e loro te le porgono, confezionate.
Facevano pure i pacchetti una volta.
Ora no, andiamo tutti di fretta.
Comunque, chissà chi volessi curare, chi volessi far stare meglio. A chi volevo dare le medicine giuste. Crescendo questa tendenza mi è rimasta, l’inclinazione ad essere la brava bambina. Ma questa è un’altra storia. Un’altra guerra.
La saga continua.
Sono anche stata una chimica da bambina: inventavo pozioni, mescolavo elementi. Il mio intento era quello di creare intrugli magici che mi rendessero sempre di più di quello che non ero.
Oggi lo faccio ancora, con il gin, ma l’effetto dura comunque poco.
Creavo pozioni per ogni cosa: una per diventare bella, una pozione per farmi amare, una pozione per essere più alta. Mi concentravo sempre sul “fuori”, costruendo la mia immagine di perfezione. Quello che vedevo allo specchio non mi piaceva affatto, anche se nessuno lo avrebbe mai detto di me. Ma una cosa è certa, usavo i miei talenti.
Sono brava a costruire quello che non c’è.
Secondo voi ci sono riuscita, alla fine, a scoprire la formula magica?
Ovviamente non mancava la mia versione sportiva nelle vesti di una calciatrice. Perché solo i maschi potevano raggiungere la gloria in un campo di calcio?
Poi volevo essere la donna impegnata, quella in carriera ai vertici di un’azienda. Raggiunto l’apice avrei scritto anche un libro sui miei successi.
Sempre modesta è vero, ma anche questa è una difesa, non una spavalderia.
A voi capita?
Di fingervi spavald* per paura di non essere niente?
Lo zero, il niente, mi hanno sempre spaventata. Un po’ come non avere niente da dire.
Sarà per questo che ho sempre voluto essere tante cose. Qualcosa che mi definisse. Ma alla fine poi giocavo a perderle tutte le mie occasioni d’oro. Casualmente inciampavo ( e inciampo ancora) poco prima di fare goal, come quei calciatori che non ci credono abbastanza e sbagliano i rigori decisivi.
Non ci credevo, non ho mai investito veramente in me stessa. Da sempre troppo impegnata a non sentirmi abbastanza per fare, e dare sfogo a tutte quelle cose in cui in fondo sono brava. Non ho mai visto i miei talenti. Li cercavo e basta.
Volevo che li vedessero gli altri per me. Restavo smaniosa ad aspettare che qualcuno mi dicesse brava, per credere di esserlo.
Che qualcuno mi vedesse, per esistere.
E indovinate un po’? Quel “brava” non arrivava mai da chi volevo io, e continuavo a restare immobile, nella mia insoddisfazione.
Confidavo nel fatto che quando sarei cresciuta, sarebbe stato tutto perfetto e sarei diventata la migliore versione di me stessa. Perché quella bambina era troppo poco, quella bambina non era mai abbastanza. Ma da grande sarebbe stata “perfetta”.
Sarebbe stata bellissima.
Sempre da grande, sarebbe diventata una professionista affermata.
Da grande non sarebbe mai stata invisibile. Da grande ce l’avrebbe fatta da sola, insomma, ma da piccola no, non ce la faceva.
Ma adesso, che grande a quante pare lo sono diventata, quella bambina è ancora qui.
Sta giocando il suo secondo tempo.
E continua a “giocare a perdere”. A quante pare, questa è un’altra caratteristica di chi convive con questa sindrome detta “dell’impostore”.
Procrastina. Si blocca, si butta, poi rincorre.
Poi vuole nuotare dove non tocca, poi ha paura. Continua a parlare molto, perché spaventata dal silenzio. Il silenzio non si può gestire, le parole invece sì.
“Non sei abbastanza brava.
Non sei abbastanza simpatica
Non sei abbastanza interessante
Non sei abbastanza bella”, mi sono sempre detta.
Potrei continuare all’infinito.
Che poi ora, riflettendo, che significa non essere abbastanza? È più una sensazione che una definizione. Eppure ho lasciato che mi definisse da sempre.
È una strana forza di gravità, una legge metafisica su cui Einstein avrebbe dovuto soffermarsi per svelarmene la formula, chissà sarei così riuscita ad annientarla.
È sia una forza motrice che spinge a migliorarmi, a sapere, a studiare, ad uscire dal guscio che un’altra forza risucchiatrice.
Mi paralizza, mi rinchiude, mi fa stare pomeriggi interi sotto al piumone.
Mi fa perdere tempo e farlo è un’altra delle mie paure.
Per abbatterla non esistono formule magiche, non esistono pozioni.
Si sconfigge solo con la verità, quella di ripetersi: “Non è vero, non è così. Guardati meglio.”
Passa solo grazie al coraggio di spezzare la catena, ammettendolo a te stess*, e dicendolo agli altri.
Si guarisce solo grazie alla forza di volercela fare davvero, perché alla fine ce la facciamo sempre a superare le sfide.
E se agli altri non piacciamo, sti c****.
Non possiamo mica piacere a tutti, basta piacersi.
Oggi lo so. E’ faticoso però.
Abbastanza è solo una parola che mi complica la vita, che uso per torturarmi, per nascondermi.
Abbastanza è tutto quello che sono.
Abbastanza è quello che in verità siamo tutti*, senza sforzi, senza compromessi.
Ho scritto questo articolo per scoprirlo e dirlo a me stessa.
L’ho fatto per dirlo a voi. L’ho fatto anche per chi si sente come me.
È il mio manifesto fragile.
Cor habeo

Nasce a Cosenza, nel 1991. Laureata in discipline economiche e sociali, consegue due master presso il Sole24ore in Digital PR: addetto stampa e social media, e in Data Protection. Oggi si occupa, tra le altre cose, di sistemi di gestione, privacy e anticorruzione: risolve problemi da quando è nata.
I suoi interessi sono in continua evoluzione, proprio come lei. È la curiosità che la muove, insieme al cuore.
Ama in maniera viscerale tutto ciò che ha a che fare con le parole: comunicare è il suo unico modo di stare al mondo. Non può vivere senza poesia e ai suoi occhi tutto è bellezza e combatte con la sua tendenza a innamorarsi ogni giorno. Adora scrivere, leggere, dipingere, ballare senza regole ed esplorare tutto ciò che si trova “dentro”, in quello spazio vuoto, interiore, che ci rende umani e non solo uomini. È alla continua ricerca dei suoi talenti, convinta di averne qualcuno, senza aver ancora capito quale. Sognatrice e falsa cinica, scrive per mettere in ordine le idee e capire chi è, ma vive nel caos dei suoi pensieri.