Non ho mai capito perché la gente scriva ai morti.
Io le mie lettere le indirizzo ai vivi… a chi ha gli strumenti adeguati per difendersi da me, che non ho mai dimostrato pietà per nessuno, specie per me stessa, specie per chi amo.
Stanotte, però, farò un’eccezione proprio con te – il mio eccezionale – che mi respiri e mi cammini accanto, senza avermi mai respirato e camminato accanto.
Non ti chiamerò “Thomas”, ti spiace? Non credo ti dispiaccia, anche se non posso saperlo di per certo perché io, ahimè, non ti ho mai conosciuto.
Perciò userò un “Bernhard” generico, un “Bernhard” qualunque – se vuoi puoi far finta che parli a tua madre…tanto sei abituato a gente che ti dà della signora, quindi farebbe più o meno lo stesso, no? (Bernhard T., “I miei premi”, Adelphi, 2009, p. 38)
Del resto, “caro Thomas” è ridondante, zuccheroso, persino squallido, se a scriverti è qualcuno che non ti ha mai incontrato.
Eppure, nonostante i nostri sguardi non si siano mai incrociati a nessun crocevia della vita, io ti sento. Nitido, ti vedo nei tuoi «pantaloni di lana grigi e nel tuo ruvido maglione di lana di pecora di un rosso squillante» (ivi, pp.12-13). Sento e vedo te che sai come nessuno quale sia il modo più adatto per scavarmi dentro, tra i muscoli e la carne, alla ricerca di un’anima che ho perso, che non ho più… e che io non abbia un’anima lo so di per certo.
D’altronde, anche se fosse scampato qualcosa al taglio ogivale della mia falce, con tutti gli alchilanti degli ultimi anni, sarebbe ormai poca roba, solo un eccesso d’istamina da grattar via perché passi il prurito.
Mi chiederai perché io ti scriva e, beh, non lo so neppure io.
Forse l’ho fatto perché è da un po’ che ti sogno e, quando lo faccio, la mia mente mi riporta sempre alla stessa sequenza di immagini.
Siamo su una spiaggia. Io ti guardo da lontano, mentre tu analizzi, scrupoloso, la ripetitività feroce con cui, in un reflusso, il mare inghiotte ciottoli e sabbia. «Strane faccende, le correnti.» bofonchi, dandomi le spalle. Al che mi sveglio senza fretta – quieta e delusa.
Sì, lo so, è stupido, soprattutto per una che non ha mai dato la minima importanza a questo genere di cose.
Sarà per queste sollecitazioni oniriche, sarà perché ciclicamente lo faccio, ma qualche giorno fa ho finito di nuovo “La cantina”.
Quando la vita mi mette alle strette, non grido, non piango, non m’arrabbio: rileggo “La cantina”.
E “La cantina” me la sono portata in ospedale a ogni ricovero, ed è proprio alla tua direzione opposta che penso quando devio da tutte quelle decisioni che ho sì preso, ma che ora non mi assomigliano più.
Perché c’è sempre una via di scampo alle proprie prigioni, e questo, Bernhard, me lo hai insegnato tu.
Qualcuno avrà da obiettare, sento già un “ma non sta mica sproloquiando di quell’olandese che parla sempre di morti?” strisciare dal fondo della sala… devo dargli retta? Direi di no.
Per lo più, quando le persone ti leggono – se ti leggono -, ti leggono male. Non è che ci voglia chissà che talento per capirti, ma, un po’ come durante il ventennio, la gente storce il naso difronte a chi mette nero su bianco suicidi, piaghe e follia.
Sia chiaro, eh: della morte e delle malattie si può parlare, ma a voce bassa, girandoci un po’ intorno… o quantomeno offrendo la morale finale, e, magari, anche un paio di strizzate d’occhio a soddisfare quella componente barbaradursiente che c’abbiamo un po’ tutti, chi più chi meno.
Insomma, uno che da bambino entra nella stanza delle scarpe di un collegio e pensa a come potercisi appendere dentro (Bernhard T., “L’origine”, Adelphi, 1982) non è proprio il massimo della vita… in tutti i sensi.
Eppure, per citare il “Contagio” di Rovelli, in tutte “le [tue] lande mortificate dai brividi del freddo, c’è vita” (Prefazione a “Gelo”, Bernhard T., Einaudi, 2008).
I tuoi personaggi – autoritratti editi e inediti, fedeli e infedeli – trasudano presenza.
E più spacciati e infinitamente debilitati sono, più si abbarbicano al suolo desertico di una vita che li ha sfiniti, umiliati, prostrati… ma, seppur in ognuno di loro l’esistenza non faccia altro che opporsi a sé stessa, a sé stessa non s’arrende.
Anzi, al contrario: nei tuoi romanzi, c’è un’eccedenza di vita tale per cui, per poter sopravvivere, deve parzialmente negare/negarsi a sé stessa. E quello che (in te e) di te disturba è proprio questo: la tua attrazione/repulsione per l’esistenza che si realizza in una feroce onestà.
La tua rivolta contro ogni vezzeggiativo esistenziale ti ha reso inviso a quanti non hanno mai patito alcuna tragedia, ma anche agli occhi di chi, negli anni, ha fatto di tutto per evitare ogni suo trapassatoio, senza capire che, per scampare davvero alla morte, bisogna attraversarla nel mezzo, trapassarla da parte a parte; e non confonderla, eluderla o smorzarla… un esempio perfetto di questo tuo sì alla vita – che è sì un’accettazione vitalistica, ma tutto fuorché accondiscendente – si può riscontrare proprio ne “La cantina”.
Il sottotitolo del secondo dei tuoi cinque libri (esplicitamente) autobiografici è – come sempre – molto evocativo: “Una via di scampo”.
Un po’ come Cosimo che, per liberarsi, piscia in testa a suo padre; tu, per ritrovarti, decidi di mandare al diavolo la scuola.
Perché sarà solo così – grazie a questa tua direzione ostinata e contraria – che uscirai davvero da quel soffocante solipsismo salisburghese che tanto ti frustrava.
La scoperta del mondo e della tua interiorità avverrà nel modo migliore possibile: mediante la contaminazione salvifica tra te e gli altri esseri umani – gli avventori dello spaccio di Podlaha, la vergogna di una società borghese che accetta il diverso solo in quanto rifiuto, scarto, residuo, avanzo.
Ed è proprio qui, nel fango sociale di Scherzhauserfeld – il quartiere degli abbandonati e degli spacciati – che deciderai di sguazzare senza calosce.
Sarà proprio lì, nella porcilaia del mondo, che ritroverai un senso che credevi perso e che ti sveglierai una volta per tutte dal tuo personalissimo incubo piccolo-borghese. («Di punto in bianco mi ero sottratto alla società che fino a quel momento era stata la mia società ed ero andato nella cantina del signor Podlaha.» p. 27).
Arrivati a questo punto, credo sia necessaria una piccola premessa – o meglio una postilla alla mia postilla.
Di Scherzhauserfeld, ne “La cantina”, ce ne sono due.
Il primo è l’effettivo quartiere salisburghese che ormai – almeno per come ne hai parlato tu – non esiste più; mentre il secondo è una metafora sulla condizione (dis/trans)umana. Al contrario del tuo Scherzhauserfeld materiale, lo Scherzhauserfeld figurato esiste ancora oggi e sconfina oltre il territorio austriaco.
Di pagina in pagina, i due Scherzhauserfeld si compenetrano a tal punto da lasciare che la metafora annienti il faubourg. Nonostante lo Scherzhauserfeld materiale defluisca quasi del tutto tra le griglie narrative de “La cantina”, i suoi abitanti hanno profili ben precisi.
Lo Scherzhauserfeld figurato non corrompe affatto la realtà concreta né riduce i suoi abitanti a uno stereotipo degenerato e caricaturale. Anzi: tutte le colpe e gli orrori di cui si macchiano i tuoi reietti sono autentici – un modo come un altro per soddisfare lo stigma che pende sulla loro testa.
Così, la tua assunzione secondo cui «tutti i cittadini si erano in sostanza trasformati in veri e propri criminali per poter sopravvivere.» (ivi, p. 43) non riguarda soltanto la povertà post-bellica in cui versava gran parte degli avventori di Podlaha (“La cantina” racconta di eventi accaduti nel 1947 n.d.r.), ma anche l’atteggiamento accondiscendente che mostrano gli emarginati nei confronti di chi li vede appunto solo come questo: degli emarginati.
In parole povere: se da te non ci si aspetta altro che il peggio, quel che darai di te stesso sarà sempre e soltanto il peggio.
E, nell’anticamera dell’inferno che poi è l’inferno (ivi), tra chi non ha mai avuto una strada, troverai la tua, di strada, l’evasione perfetta che è in realtà il ritorno in un te stesso fino ad allora defraudato della sua libertà espressiva.
Lo shock manifestato dell’impiegata dell’ufficio di collocamento a seguito della tua decisione di lavorare in un quartiere, che più che un quartiere è un marchio d’infamia, è l’emblema dello scandalo borghese di fronte a chi sceglie scientemente di trasgredire alle sue leggi d’integrità.
Così, la via che ti conduce allo spaccio di Podlaha – il primo posto in cui tu ti sia sentito davvero utile – sarà la strada che ti condurrà alla tua liberazione.
La libertà – che ne “La cantina” coincide con la liberazione – ce la s’immagina ariosa, sconfinata e iridescente, ma, nei fatti, raramente è così.
Infatti, la sua plasticità le consente di plasmarsi sull’indole di ognuno. Forse è per questo che tu, la tua libertà, non l’hai trovata in uno spazio aperto, ma tra le asfissianti mura di una cantina, popolata da esseri umani di ogni risma sociale. «Qui [a Scherzhauserfeld] – ci spieghi – non c’erano professori di matematica, né professori di latino, né professori di greco e non c’era neppure un direttore dispotico al cui solo apparire mi sentivo mozzare il respiro, qui non c’era nessuna istituzione micidiale. Qui non c’era l’assoluta necessità di controllarsi, di chinare il capo, di fingere e di mentire per sopravvivere. Qui […] non si pretendevano continuamente da me cose inaudite, disumane, o meglio la disumanità stessa. Qui non ero ridotto a una macchina per imparare e per pensare, qui potevo essere me stesso. E gli altri potevano essere se stessi.» (ivi pp. 93-94)
È chiaro, fin dalle tue prime battute, che il tuo apprendistato da Podlaha ti formerà più come antropologo che come garzone.
La tua osservazione partecipante perderà, però, ben presto i suoi connotati osservativi e diventerà una partecipazione totale e tout court. Non avrai bisogno di diari tardivi per esprimere il tuo malcelato disagio: il tuo fastidio è palese, manifesto ed evidente.
Tu, caro Thomas, non hai peli sulla lingua. In fondo, sei figlio di Scherzhauserfeld. E come lo sei tu, lo sono anche io e tutti quelli che hanno scelto di perseguire vie impopolari per fuggire dall’angustia di una vita programmata, calendarizzata, irrigidita.
E spezzare le catene di scelte, che hanno smesso di avere la nostra stessa fisionomia, ci ha condotti a riscoprire la cruda nudità della nostra umanità.
Perciò, da perfetti punitori di noi stessi, nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Per dirla con parole nostre, «noi ci riconosciamo in ogni uomo, chiunque egli sia, e siamo condannati a essere quest’uomo fin quando dura la nostra esistenza. Noi siamo tutte queste esistenze e tutti questi esistenti insieme e andiamo alla ricerca di noi stessi, però non ci troviamo. […] Abbiamo spesso rinunciato e ricominciato, e ancora molte volte rinunceremo per poi ricominciare. [Eppure] tutto è lo stesso. Noi siamo condannati a vivere una vita, e dunque la nostra è una condanna a vita, per uno o più delitti, chi lo sa?, che non abbiamo commesso, oppure che commettiamo di nuovo per altri dopo di noi. […] Abbiamo acquistato in capacità di resistere, nulla ormai può farci capitolare, non siamo attaccati alla vita ma nemmeno la svendiamo […].» (ivi, p. 128).
In quest’ultimo passaggio de “La cantina”, straziante nella sua autenticità, dimostri una cosa semplice eppure non così scontata: la letteratura è un’inesausta flagellazione, ma è anche un tramite per dare voce a tutti quei pensieri che, per vergogna o per pudore, restano taciuti.
Non ti nego che, in tempi così incerti, io ti pensi ogni giorno.
E, ogni giorno che si va e si fa via via più immiserito, ricordo il nostro muoverci sempre e comunque nella direzione opposta; in un versante contrario, ma anaciclico; e al nostro perenne orientarci al rovescio, che poi è solo un modo diverso per recitare lo stesso verso mandato e rimandato a memoria.
Perdonami: stasera sono un po’ sentimentale. Così ricordo la malattia di cui sei morto – non è assurdo che proprio tu ti sia congedato dalla vita perché avevi un cuore troppo grande? -, il tuo sorriso amaro, che un po’ m’assomiglia, e la tua tomba tripartita ché non sarai mai solo, amore mio, neppure da decomposto.
Arriverà un giorno in cui, in ginocchio sulla tua terra bella d’edera, ti bagnerò di lacrime le ossa e ti inonderò la lapide con le mie correnti avverse.
Perché sì, le correnti sono una strana faccenda, proprio come il nostro legame che non esiste, eppure è vivo.

trad. Bernardi E., Adelphi, 1984
ISBN 88-459-1072-5, pp. 128
€ 14,25
Nata a Cosenza alla fine del 1994, trapiantata a Milano da diversi anni.
Laureata in Filosofia e specializzata in Scienze Filosofiche, esperta di Rivoluzione Francese e vincitrice di numerosi premi letterari, ha collaborato a soli 19 anni ad una nuova traduzione di un’opera di Kant, è un’accanita sostenitrice della ricerca contro i tumori e attualmente si occupa di risorse umane e della stesura del suo primo romanzo.
Appassionata di storia, scrittura, letteratura e fotografia!