"La mattina successiva, il libro era ancora lì che mi fissava."

Ho sempre amato i racconti della buonanotte.

Mia nonna me li leggeva ogni sera quando i miei genitori viaggiavano per l’Europa per lavoro.

Ricordo la storia della principessa stanca di essere ricca e infelice, quella dei due fratelli mangiati dal drago e risputati a ridosso del vulcano, ma la mia preferita si intitolava “Le donne del fiume”.

Mia nonna aveva un’enfasi particolare nel leggere ogni parola di questa storia e riusciva a mutar voce e intonazione ogni qual volta il personaggio cambiava e la situazione diventava intrigante. Mi diceva sempre “Marco, non vergognarti mai di leggere una storia, anche quando sarai grande”.

“Ogni mattina mi dirigevo al fiume per una passeggiata e fissavo le donne che con mansueta calma e serafica pazienza, tra un motivetto cantato a bocca chiusa ed una condivisione del sapone, ergevano quelle che ai miei occhi sembravano case in stoffa, fortini in cui fare la guerra, che andavano da un albero all’altro, muovendosi a ritmo del vento.

Ero affascinato, le sentivo ridere, sghignazzare per delle battute troppo lontane da percepire dall’altra parte del fiume. Sembravano uomini al fronte, in attesa di sgusciare all’esterno e combattere per il Paese.

Sentivo l’acqua che con forza si infrangeva contro le rocce e mi rallegravo nel vederle in attesa che tutto fosse lindo, asciutto e pronto per essere ritirato. Il loro umore cambiava, in quel momento, e avrei giurato di vedere anche qualche lacrima sul volto.

“Antonio, è ora di andare”, mi diceva mia madre in lontananza, mentre avevo tra le mani un sasso piatto da far saltare sulle increspature del fiume.

Mi ritrovavo mano nella mano con lei e le altre donne che risalivano, con i cesti pieni di biancheria in spalla e l’umore cupo sul viso.

A casa mia madre non parlava molto, stanca rimaneva vicino al fuoco dopo aver cucinato per me e mia sorella. Tra le spade di legno intagliate da mio padre prima di partire per la guerra e la stanchezza di una lunga giornata, mia madre ci accoglieva tra le braccia e, vicino al camino, intonava a bassa voce la melodia del mattino.

“Mamma, quando torna papà?” chiedeva mia sorella Matilde.

Le lacrime riempivano gli occhi di mia madre, che con timore e decisione rispondeva: “Presto”.

La porta di casa non si aprì mai, ma le braccia di mia madre resterono sempre aperte.”

Mia nonna chiudeva il suo libro, lo posava sul mio comodino, mi rimboccava le coperte e mi dava un bacio in fronte.

Una sera la vidi, con gli occhi semichiusi, allontanarsi verso la porta.

“Nonna?”

“Sì, Marco?”

“Dov’è andato quel papà?”, le chiesi incuriosito e assonnato.

“In un posto lontano, al di là del fiume”.

Mi feci bastare la risposta e mi addormentai con questo dubbio nella mente e nel cuore.

La mattina successiva, il libro era ancora lì che mi fissava.

Mi sedetti sul letto, lo posai sulle gambe e lo aprii. Non mi ero mai accorto che dentro la storia vi fosse, scritta a mano, una piccola dedica sulla prima pagina:

“Ad Antonio, mio figlio. La guerra mi fa paura, ma il mio cuore si scalda se ti penso. Scrivi tanto, non vergognarti mai di leggere una storia, anche quando sarai grande. Papà”.

Una lacrima tagliò il mio viso. Mio padre, Antonio, non mi aveva mai raccontato questa storia, ma io, l’ho sempre amata.

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