L’AVVENTO DEI SOCIAL E PRIVACY: PRIMA ERAVAMO DAVVERO COSÌ TUTELATI?

"Vero è che i social network conoscono molto dei propri utenti, ma è altrettanto vero che un’attenzione delle aziende verso la privacy e i comportamenti dei consumatori c’è sempre stata."

Ci aveva pensato qualche mese fa il docu-film “The social dilemma” diretto da Jeff Orlowski e trasmesso da Netflix a farci interrogare su quel compromesso tacito che si sottoscrive ogni qualvolta ci si iscrive o meglio ancora, si utilizza, un social network, che consiste sostanzialmente nel permettere ai proprietari delle app (che col tempo stanno diventando uno) di “sbirciare” i desideri degli utenti, anche quelli più reconditi, i loro interessi e le loro passioni. Il tutto viene fatto in nome della profilazione. I social network guadagnano infatti dalla pubblicità e molto spesso sono stati accusati di farlo anche della vendita dei dati degli utenti alle aziende, l’ultima eventualità è però sempre stata smentita dai diretti interessati, che comunque hanno interesse nel fornire contenuti sempre più personalizzati. L’interesse delle aziende è quello di soddisfare i bisogni dei consumatori, ma se il bisogno è anticipato o addirittura creato, ciò gli permette di acquisire una posizione di vantaggio rispetto ai competitor con tutti i benefici che ne derivano.

Per questo da un po’ di tempo a questa parte si sente molto parlare di privacy e social network. Due parole che nella percezione comune sono agli antipodi, per questo, quando Whatsapp ha proposto di recente ai suoi utenti di rivedere la politica sulla privacy e condivisione dei dati con Facebook è scoppiato un putiferio con una fuga di massa degli utenti verso altre app di messaggistica quali Telegram o Signal, il che ha portato i proprietari dell’app con il logo verde a rivedere la propria posizione, prendendosi del tempo (per la precisione 3 mesi), per spiegarsi meglio e permettere agli utenti di metabolizzare quella che a detta loro è “un aggiornamento che include invece modifiche che riguardano nuove opzioni facoltative a disposizione degli utenti che desiderano comunicare con le aziende su WhatsApp e offre maggiore trasparenza sulle nostre modalità di raccolta e utilizzo dei dati” come si legge sul blog di Whatsapp. Sostanzialmente, l’app di Menlo Park ci ha tenuto a precisare che “tranquilli non siamo interessati a sapere il nome improbabile del vostro gruppo di famiglia e neppure a leggere le vostre altre chat”.

La domanda che però sorge spontanea è: davvero la nostra privacy è stata messa a rischio dai social network?

Sicuramente la crescente attenzione verso i “Big Data” ossia la capacità di analizzare enormi moli di dati che possono derivare dalle fonti più disparate e che possono aiutare le aziende nell’obiettivo di cui si è parlato prima ha fatto sì che l’attenzione sull’argomento crescesse. Tuttavia la maggior capacità di elaborare i dati e la maggior predisposizione degli utenti a mostrarli ha sicuramente inciso sulla “curiosità” delle aziende che però è sempre stata molto alta verso la nostra privacy. Un esempio? Beh, possiamo pensare alle carte fedeltà dei negozi. A chi non è mai capitato di andare a fare la spesa e vedersi proposta una fantastica tessera fedeltà con le dimensioni di un Bancomat, colori sgargianti e il logo della catena di negozi? Una proposta, quella della/del commessa/o, che appariva irrinunciabile e priva di rischi. “Prima di poter avere la carta c’è bisogno che lei mi compili questi fogli”, sarà capitato di sentirvi dire, scritti con un font improbabile e con le dimensioni del carattere che non vi avrebbero permesso di distinguere una “e” da una “o”. Tali fogli richiedevano il più delle volte delle informazioni generiche su voi e sulla vostra famiglia. Presi dalla fretta, dalla concitazione del momento, dalla voglia di cogliere al volo questa fantastica occasione che prometteva di migliorare la giornata e dall’astigmatismo chiunque ha firmato quelle scartoffie, magari anche chiedendo all’addetta/o di indicare l’angolo del foglio su cui apporre la firma. Eppure, quelle erano delle “Condizioni per la privacy”, in pratica si stava- anche allora- cedendo i propri dati e la propria privacy alle multinazionali. Sì perché in tal modo, le aziende produttrici avrebbero iniziato a studiare i comportamenti dei consumatori, proprio come fanno ora, con strumenti evidentemente più sofisticati di allora. Infatti, quell’azienda e quella catena di negozi, avrebbero saputo tutte le volte in cui si sarebbe andati a comprare il pane, la pasta, il latte, il formaggio, ecc.. Da cosa? Beh, dal codice a barre presente sui prodotti! Tali informazioni, combinate poi con quelle socio-demografiche avrebbero aiutato le aziende a studiare e a cercare di fornire risposte più precise e pronte ogni qualvolta si fosse manifestata un’esigenza.

In conclusione si può certamente affermare che, è vero, i social network conoscono molto dei propri utenti, ma è altrettanto vero che un’attenzione delle aziende verso la privacy e i comportamenti dei consumatori c’è sempre stata. Non ci resta che affidarsi, come sempre stato fatto al buon senso e alla legge che cerca sempre di aggiornarsi su questi temi così delicati, senza cadere in “complottismi” o isterismi inutili che trasformano anche un semplice passatempo in una lotta interna con la propria coscienza. 

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