L’arte di cadere: anatomia di un fallimento

"Seppure possano sembrare spaventose – e, all’inizio, lo sono – le cadute rovinose hanno un grande pregio: cambiano la tua prospettiva sul mondo, stravolgendo momentaneamente la tua visuale e portandoti a considerare ciò che conta davvero."

Ho imparato a cadere a 5 anni. Giocavo con le mie bambole nella stanza da letto di mia nonna, sul tappeto persiano a figure geometriche consumato da suole di scarpe straniere, in un via vai metodico di adulti di cui io, dalla mia prospettiva, vedevo solo i piedi… mai le gambe, mai le mani, mai il volto: solo l’instancabile e incessante via vai, vai e vieni di suole e di scarpe a cui quelle suole appartenevano.

Nessuno di loro mi dava il tempo di focalizzarmi su altro, affannati com’erano su quel corpo – infiacchito da una malattia di cui ai tempi ignoravo forma e nome – che un tempo non troppo lontano apparteneva a mia nonna, ma che di mia nonna, ormai, non c’aveva più nulla, neppure l’odore.

Ho imparato a cadere lì, su quel tappeto, quando mia nonna – l’altra, l’incolume, la sana, la salva – mi informò di ritorno da scuola che l’anima di mia nonna era volata in cielo.

Ma a me del cielo non m’importava poi molto e all’impalpabilità dello spirito ho sempre preferito la degradabilità della carne. Ecco perché, muta, ho percorso il breve corridoio di casa dei miei nonni materni, ho svoltato a sinistra, ho spalancato la porta della stanza in cui giaceva il guscio vuoto che un tempo conteneva mia nonna e ho domandato, perentoria «E il corpo? Il corpo dov’è?».

Qualche giorno dopo mia madre mi prese per mano e mi accompagnò in quello che scoprii essere un cimitero. Mi indicò un blocco in granito grigio e mi disse «Volevi il corpo? Eccolo qui. il corpo sta qui dentro.».

Tirai un respiro di sollievo e trovai nella lapide un appagamento alla mia angoscia.

Ho imparato a cadere a 5 anni e da quel giorno non ho mai smesso di farlo, forse perché il dolore, negli anni, è diventato un mio compagno fedele, che non mi mai spezzato del tutto, né degradato in senso stretto.

Ogni volta che sono sul punto di cedere alle sollecitazioni insistenti della fine e alla nenia insopportabile dell’arrendevolezza, ho sempre fatto un passo indietro e all’indietro mi sono lasciata cadere.

Ci sono volte in cui mi sono alzata subito da terra, scrollandomi di dosso la polvere con un colpo secco delle spalle e in cui ho recuperato il tempo perso, camminando a passo svelto; altre in cui il sudore ha reso madido il mio viso e annebbiato il mio sguardo e le gambe mi si sono fatte così flosce da paralizzarmi al suolo.

Seppure possano sembrare spaventose – e, all’inizio, lo sono – le cadute rovinose hanno un grande pregio: cambiano la tua prospettiva sul mondo, stravolgendo momentaneamente la tua visuale e portandoti a considerare ciò che conta davvero.

Dal fondo si riescono a guardare le cose dalle radici a cui si abbarbicano e dalle fondamenta che troppo spesso diamo per insondabili o per assolutamente certe, ossessionati come siamo dalle nostre sovrastrutture mentali e dal culto insensato dell’infallibilità.

Dalle cadute, specie da quelle più inaspettate e rovinose, si impara l’arte della pazienza e si riscopre la propria fragilità, pregio dell’umanità ma così spesso vituperato da sembrare una falla e non qualcosa di consustanziale alla nostra natura.

Stesa per terra ho dato tutte le volte il tempo ai miei polmoni di riempirsi e ai distratti di superarmi, ma ho anche lasciato che la morte mi scansasse e che qualcuno mi notasse perché – checché se ne dica in questi tempi incerti, in cui ci sembra che la disumanità pasca a discapito dell’umanità  – di occhi allenati a guardarti quando tu non ne sei più in grado e di braccia pronte a sollevarti, quando tu non ne sei più capace, ce ne sono e ce ne saranno sempre.

“Ricordati di non disperare dell’umanità”, diceva Robespierre, poco prima del suo tracollo. Un’affermazione che mi ha sempre dato forza, anche negli istanti più bui, anche nei momenti in cui più che cadere all’indietro, di schiena, verso la mia salvezza, avrei voluto cadere in avanti, di faccia, verso la mia rovina.

Ho imparato a cadere a 5 anni e da quel giorno non ho mai smesso di farlo.

Ora, stesa immobile per terra, a un passo dallo squarcio, dal mio orrido e dal mio abisso, ancora una volta scampati per un pelo, faccio una cosa che faccio di rado, vittima come sono – come tutti – della fretta e dell’affanno: guardo il cielo.

Una luna butterata sembra fissarmi, la lascio fare ché prima o poi anche lei avrà di meglio da fare.

Da un lembo periferico del mio campo visivo si scolla una stella che si lascia cadere in una scia bianca.

Anche se non ci credo, esprimo un desiderio, e, anche se non si può fare, lo rivelo lo stesso: vorrei che, prima di risollevarmi da terra, qualcuno mi si stendesse di fianco, cosicché potremmo rialzarci insieme e insieme, poi, magari, fare un pezzetto di strada mano nella mano.

Ma senza fretta, senza affanno, godendoci, per una volta, il paesaggio.

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