Tra gli eventi più attesi di questo 2021 non vi è dubbio che ci fosse anche la giornata di oggi. I riflettori del mondo sono puntati sulla moribonda democrazia americana, in cui è previsto l’insediamento del nuovo presidente eletto, il democratico Joe Biden.
Si può dunque tirare un sospiro di sollievo perché, di fatto, questo sancisce la fine istituzionale di quel bizzarro – e in parte ancora incompreso – fenomeno politico che è stato Donald Trump. E tuttavia, non c’è affatto motivo di rilassarsi se si pensa agli ultimi, gravissimi, fatti di cronaca che hanno messo duramente alla prova la tenuta democratica del paese nelle ultime settimane.
Nella lingua inglese esistono parole che vengono definite omofone, vale a dire con un suono simile o addirittura che si pronunciano allo stesso modo ma che hanno significato diverso: è il caso di route e root, che rispettivamente si traducono come rotta – o, più banalmente, percorso – e radice.
Servendoci di questo curioso gioco di parole potremmo dire che l’America oggi cambia rotta ma non radici e questo, per chi conosce la lunga tradizione politica del Nuovo Continente, lascia spazio a una sola convinzione: Donald Trump non è affatto un fenomeno isolato, tanto più che potremmo considerarlo l’effetto ultimo (e non la causa), l’espressione più alta e insieme tragica del momento populista negli Stati Uniti.
Dopo la crisi economica del 2008-2011, la riduzione della politica ad economia politica, ispirata nei precedenti decenni dal trionfo della globalizzazione (di cui si fa coincidere l’inizio con il Thatcherismo e la Reaganomics degli anni Settanta e Ottanta), provocò spinte “in difesa della società”, che si manifestarono tanto in esperimenti di riattivazione della cittadinanza democratica quanto nella ricomparsa di forme reazionarie e autoritarie di populismo. È in questo contesto che trovarono spazio prima la forza attrattiva dello slogan “We are the 99 percent” (Trad. “Noi siamo il 99 percento”) del movimento Occupy Wall Street e poi quella della retorica sovranista di Donald Trump.
A ben vedere, però, motivi populisti scorrono nel profondo della storia politica statunitense da sempre, da quando Thomas Jefferson, a differenza dei repubblicani moderati John Adams e Alexander Hamilton, aveva ammesso di non temere affatto il pericolo di una “tirannide” del popolo, considerando assai più pericolosa quella dei ricchi, dei privilegiati e degli aristocratici.
Anche nella filosofia del tempo non mancano esaltazioni dello spirito democratico ed antielitario: basti pensare al celebre “mito della frontiera”, grazie al quale le terre che l’Unione stava conquistando a ovest divennero il simbolo dell’ “America autentica, anti-aristocratica, senza gerarchie precostituite”.
Un momento di svolta nella storia statunitense fu poi la “rivoluzione Jacksoniana”, sancita dalla vittoria delle elezioni presidenziali del 1828 da parte di Andrew Jackson, il “candidato del popolo”. Da lì prese avvio il culto della personalità, nonché l’idea ambiziosa del “self-made man”. Nonostante ciò, il nuovo presidente non riuscì a nascondere la poca esperienza politica e la sua amministrazione fu connotata da inefficienze e continue lotte per il potere. Non è un caso che il tycoon newyorkese sia stato spesso accostato alla figura di Jackson, “populista e inesperto”, arrivato come lui alla Casa Bianca con la pretesa – malfondata, visto il suo conto in banca – di parlare a nome della gente comune e riferendosi solo ai cittadini bianchi. Il parallelismo è ancora più immediato se si pensa alla deportazione degli indiani Cherokee da parte di Jackson e gli analoghi programmi di Trump nei confronti degli immigrati messicani.
Compiendo un balzo in avanti arriviamo alla vittoria del democratico George Wallace (1963), che si presentò con il motto “Segregazione ora… segregazione domani… segregazione sempre”. Agli occhi delle persone si autoproclamò una persona comune: si vestiva con abiti poco costosi, professava il proprio amore per la musica country e per “il ketchup su tutto”.
Alla sua presidenza succedette quella del repubblicano Richard Nixon e anche qui i parallelismi con Trump si sprecano. Nella sua campagna elettorale, infatti, fece leva sul senso di prostrazione dell’America, descrivendola come un paese in difficoltà, in cui era necessario tornare ad ascoltare la voce degli “americani dimenticati, quelli che non strillavano, la grande maggioranza silenziosa”.
E poi ancora Reagan nel 1980 con lo slogan “Let’s Make America Great Again” e il suo programma incentrato sul liberismo economico, la candidatura di Ross Perot nel 1992 che proponeva di condurre il governo come un’impresa ( i cittadini tutti potenziali businessman), fino a giungere a Pat Buchanan che nella campagna del 1994 propose di ridurre drasticamente l’immigrazione costruendo una barriera – la Buchanan fence – lunga oltre 300 chilometri al confine tra Messico e Stati Uniti.
Insomma, niente di nuovo sotto questo cielo.
Con Donald Trump il populismo si ripresenta in una versione “dall’alto”. Il presidente uscente, guidato abilmente dai suoi strateghi, ha saputo riprendere molti dei classici topoi populisti, dando espressione contemporaneamente al liberalcapitalismo, al nazionalismo e al razzismo.
È certo però che il populismo da solo non basta a spiegare il successo di Trump, avendo ispirato, come si è visto, gran parte del discorso politico americano per interi decenni. Non bastano neppure le innumerevoli teorie psico-patologiche che liquiderebbero un po’ troppo semplicisticamente il problema, incasellando Trump nella dicitura di “leader narcisista”.
Com’è possibile – si chiedono i ricercatori dell’Università della California – che nonostante le chiare derive autoritarie, il presidente uscente abbia ancora così tanti seguaci disposti ad osteggiare i processi democratici e una realtà verificata? Per capirlo bisogna studiare e interpretare le forze che avevano portato alla sua vittoria nel 2016.
Trump è stato il catalizzatore perfetto delle pulsioni più basse di tutta quella fetta di popolazione identificabile come “classe lavoratrice bianca”, la quale per decenni aveva visto da un lato il progressivo arricchimento delle classi più elevate e dall’altro l’ottenimento di benefici per quelle meno abbienti non-bianche, grazie a politiche compensatorie. Si era sentita, dunque, abbandonata e privata di qualsiasi prospettiva futura.
Da questo punto di vista non si può certo dire che Trump non abbia agito, con tagli fiscali significativi che avvantaggiano in modo sproporzionato gli americani al di sopra del reddito medio, deregolamentazioni delle industrie e definanziamento delle agenzie di regolazione per quanto riguarda l’economia; ancora, nomine di ruoli decisivi (come i membri della Corte Suprema) esplicitamente a favore della destra cristiana o nativista se facciamo invece riferimento al campo ideologico.
Infine, il fattore vincente dell’escalation Trumpiana, il suo ripiegare il risentimento nella “sfera privata”. Come nota acutamente Giovanni Borgognone nel libro “House of Trump”, pur essendoci sullo sfondo l’idea di una “comunità bianca” minacciata dalle spinte della globalizzazione e del multiculturalismo, gli orientamenti di gran parte dell’elettorato trumpiano “sono connotati più da motivazioni individualistiche che da un senso di appartenenza collettiva […] e sono mobilitati sulla base di una progettualità politica instabile e ibrida, rivolta all’emotività personale, senza una visione ben definita”.
L’autore conclude, quasi profeticamente, asserendo che “la politica americana ha assunto le sembianze caricaturali del wrestling, sport-spettacolo significativamente molto apprezzato da Trump, nel quale ci si convince che sia vero ciò a cui, razionalmente, non si potrebbe credere”.
A qualcuno saranno certamente tornate alla memoria le immagini sciagurate dell’assalto a Capitol Hill: “sembra un film”, si è detto. Ma purtroppo, era la realtà.
Se buona parte degli americani continuerà a pensare che la politica (n.b. la democrazia!) possa assomigliare ad una pellicola grottesca, poco importa essersi “liberati” di Trump. Il problema va estirpato alla radice e fino a quando ciò non avverrà gli americani difficilmente riusciranno a svegliarsi da questo incubo ad occhi aperti.

Scorpione nell’anima, classe 1996, nasce a Cosenza e atterra a Torino.
Specializzata in Scienze del Governo, curiosa del genere umano e di tutto ciò che è cultura, studiosa dei fenomeni di mutamento politico ed economico-sociale in una prospettiva multidisciplinare, aborra l’autoreferenzialità del sapere, il qualunquismo, e le questioni che non vengono analizzate a dovere.
Pallavolista a livello agonistico, aspira a diventare docente universitaria e giornalista.
Appassionata di filosofia politica, dibattito, sport, viaggi e mondo viticolo… per diventare presto sommelier!