“La voce del padrone”, il diario di un mistico in cammino

"La forza del disco sta nel suo impareggiabile equilibrio: brani eccentrici e originalissimi convivono con arie orchestrali classicheggianti; intricate basi elettro-rock si alternano a partiture d’archi ampie e trascinanti; il Battiato avanguardista ed elitario degli anni ’70 cede il passo a un personaggio raffinato ma alla moda, colto e sfacciatamente mainstream"

Ma come si ascolta Franco Battiato? Ora che il grande cantautore non c’è più, le ipotesi di lettura dei suoi brani più celebri possono crescere e moltiplicarsi in maniera anche più incontrollata di quanto non accadesse prima. Ricordiamo tutti la polemica iniziata l’anno scorso, in pieno lockdown, da una Michela Murgia rea di aver accusato Battiato di essere un intellettualoide un po’ hipster, che mescolando frasi e immagini apparentemente profonde, in realtà del tutto casuali e insignificanti, diede l’impressione ai suoi ascoltatori di essere in presenza di chissà che verità rivelate. Murgia scontò questa sua, più che legittima, opinione con un fuoco incrociato di fan arrabbiati (tra cui un veementissimo Andrea Scanzi) che in sostanza le intimarono di stare al suo posto. E questo perché no, assolutamente: i testi di Battiato sono davvero profondi e tutt’altro che casuali.

La verità, almeno a mio avviso, è che entrambi questi schieramenti avevano – e hanno – pienamente ragione: da un lato, infatti, la musica di Battiato è effettivamente coltissima, a cominciare proprio dalla componente prettamente musicale, fitta di riferimenti a composizioni classiche e contemporanee; dall’altro, questa complessità è effettivamente strutturata, in non pochi brani del cantautore, secondo modalità ironiche-autoironiche, o addirittura sarcastiche, per cui l’effetto prodotto sull’ascoltatore è davvero quello di mescolare elementi decisamente eterogenei senza un vero filo conduttore. Un effetto di caos citazionistico e autocompiaciuto. Ciò non toglie, tuttavia, che al di sotto di questa superficie si celi un concreto e consapevole progetto autoriale.

Affinché questo progetto emerga, tenterò qui un’interpretazione di uno degli album più importanti di Battiato, a detta di molti il più importante in assoluto: La voce del padrone del 1981, disco che cementificò il successo del cantautore catanese e lo proiettò verso la fama internazionale. L’album uscì come terza tappa di un percorso allora sostanzialmente nuovo per Franco Battiato. Nel 1979, infatti, il cantautore pubblicò il suo primo, vero disco pop: L’era del Cinghiale Bianco, scritto a quattro mani con il compositore e violinista Giusto Pio. Il successo di pubblico portò la coppia di autori a rinnovare la collaborazione per Patriots (1980), album che riconfermò la solidità anche commerciale della “nuova” formula pop-rock del cantautore, spianando la strada al vero capolavoro del periodo: La voce del padrone, appunto, anch’esso scritto con Giusto Pio.

La forza del disco sta nel suo impareggiabile equilibrio: brani eccentrici e originalissimi convivono con arie orchestrali classicheggianti; intricate basi elettro-rock si alternano a partiture d’archi ampie e trascinanti; il Battiato avanguardista ed elitario degli anni ’70 cede il passo a un personaggio raffinato ma alla moda, colto e sfacciatamente mainstream. È così che nascono alcuni dei brani più celebri della canzone d’autore anni ’80, da Centro di gravità permanente a Gli uccelli, ma più che cimentarmi in una recensione delle singole tracce vorrei tentare un’analisi della struttura complessiva del disco, che rimane, ad oggi, uno dei più enigmatici di tutta la musica leggera italiana. Insomma, che cosa significa La voce del padrone? Che cosa tenta di raccontare?

Per rispondere a queste domande mi servirò di due concetti-guida: il concetto di «euforia» e quello, contrapposto, di «disforia». Se il primo termine, in senso lato, indica una condizione di benessere psichico, di pienezza emotiva, il secondo, viceversa, indica uno stato di inquietudine e dissociazione. Se “euforia” significa, insomma, sentirsi un tutt’uno con le cose, “disforia” significa, da quelle cose, provare un senso di distacco umorale se non depressivo. Appartenenza e inappartenenza, dunque. Si guardi ora la scaletta dell’album, tenendo presente questa distinzione preliminare:

  1. Summer on a solitary beach
  2. Bandiera bianca
  3. Gli uccelli
  4. Cuccuruccucù
  5. Segnali di vita
  6. Centro di gravità permanente
  7. Sentimiento nuevo

Tralasciando la prima canzone (che nella sua rarefazione attraversata da elementi dissonanti e perturbanti – «di tanto in tanto un grido copriva le distanze» – rappresenta una sorta di introduzione alle atmosfere del disco), si potrebbe dire che per le successive valga un principio strutturale di alternanza, per cui un filone “disforico” si contrappone sistematicamente a un filone “euforico”. Al primo filone è possibile ricondurre la linea Bandiera bianca – Cuccuruccucù – Centro di gravità permanente; al secondo, la linea Gli uccelli – Segnali di vita – Sentimiento nuevo.

Ai due filoni corrispondono due diverse modalità di scrittura testuale e musicale, piuttosto evidenti anche a un ascolto superficiale. La prima linea è infatti smaccatamente rock: i ritmi di Bandiera bianca, Centro di gravità e Cuccuruccucù sono infatti molto veloci e cadenzati, gli arrangiamenti ricchissimi di sonorità elettroniche variamente incastonate nella base ritmica. La seconda linea, viceversa, e forse con la sola eccezione di Sentimiento nuevo (la quale, infatti, sfugge almeno in parte a questa classificazione), ha sonorità aperte, ariose ed è caratterizzata dalla presenza di lunghi e articolati incisi in cui la stessa base ritmica scompare a tutto vantaggio delle partiture d’archi. Si ascoltino i “ritornelli” di Segnali di vita e Gli uccelli, ad esempio, nonché la maestosa introduzione di quest’ultima, vera e propria ouverture operistica.

Per quanto riguarda i testi, le cose si fanno persino più intriganti. Uno dei tratti stilistici più forti di Battiato è la sua scrittura per “quadri” e “frammenti”, per cui a una narrazione lineare si preferisce un montaggio di versi dissonanti, a volte prelevati dalla tradizione della poesia italiana (come in Frammenti, 1980). La voce del padrone porta questa modalità di scrittura al suo apice, al punto che, nella stessa canzone, e nel giro di pochissime battute, è possibile passare da «una vecchia bretone / con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù» a «gesuiti euclidei / vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori / della dinastia dei Ming» (Centro di gravità permanente). O ancora, si veda quanto discontinue, frante, disarticolate appaiano le strofe di Cuccuruccucù:

Le serenate all’istituto magistrale

Nell’ora di ginnastica o di religione

Per carnevale suonavo sopra i carri in maschera

Avevo già la luna e Urano nel leone

[…]

L’ira funesta dei profughi afgani

Che dal confine si spostarono nell’Iran

Cantami o diva dei pellerossa americani

Le gesta erotiche di Squaw “pelle di luna”

Quadri descrittivi che, come è evidente, non si organizzano mai in un racconto compiuto, lasciando all’ascoltatore l’onere di tirare le somme, di riordinare il caotico materiale testuale. Eppure, all’interno dello stesso disco, si possono ascoltare anche strofe di questo tipo:

Rumori che fanno sottofondo per le stelle

Lo spazio cosmico si sta ingrandendo

E le galassie si allontanano

Ti accorgi di come vola bassa la mia mente

È colpa dei pensieri associativi

Se non riesco a stare adesso qui

Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire

Le luci fanno ricordare le meccaniche celesti

Dove è altrettanto evidente non solo la linearità e l’intenzione comunicativa, ma anche la totale assenza di intenti ironici-autoironici. Qui Battiato è serissimo, e sta descrivendo ciò che la critica letteraria del 900 chiamerebbe una «epifania»: le «luci» delle case al crepuscolo si trasformano improvvisamente in un evento straordinario, la rivelazione delle «meccaniche celesti». In questo breve ritornello c’è tutta la tradizione poetica e letteraria del cosiddetto Modernismo, da James Joyce a Eugenio Montale, passando per T. S. Eliot. Ma se il saltellare senza soluzione di continuità tra «vecchie bretoni» e «gesuiti euclidei», tra «serenate all’istituto magistrale» e «profughi afgani» lasciava intravedere una componente “disforica”, per cui le cose del mondo si affastellavano in elenchi caotici e apparentemente senza senso, qui, in Segnali di vita, l’interiorità del cantautore partecipa intensissimamente a un momento di rivelazione. Si è quindi in presenza di una componente “euforica”, di coincidenza emotiva con un tutto universale, decisamente contrapposta alla precedente.

Lo stesso ragionamento si può fare per Gli uccelli, che nel descrivere il movimento di uno stormo in volo sottolinea come essi mostrino all’osservatore «codici di geometrie esistenziali»: gli uccelli sono il correlativo oggettivo (appunto, Eliot e Montale) di uno stato di pienezza emotiva che si manifesta proprio nell’osservazione del loro volo. Una condizione di partecipazione assoluta alle dinamiche della Natura e del Cosmo, che per un attimo fa dimenticare tutte le brutture della società contemporanea. L’esatto opposto, di nuovo, di quanto viene raccontato e descritto in Bandiera bianca e Centro di gravità. L’esatto opposto, anche, del rapidissimo mixaggio di brandelli testuali (e di lapidarie immagini-ricordo sia collettive che personali) di Cuccuruccucù. Si vedano, allora, due passaggi piuttosto eloquenti di questa condizione di “disforia”, che al contempo sottolineano come, anche dietro i pezzi apparentemente più incomprensibili, faccia capolino la presenza di una struttura portante, di una «geometria». Ecco il primo, da Bandiera bianca:

A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata

A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie

Ed ecco il secondo, da Centro di gravità permanente:

Non sopporto i cori russi

La musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk inglese

Neanche la nera africana

Il cantautore, in entrambi i passaggi, si sta autolegittimando per negazione. Distaccandosi provocatoriamente, da un lato, dalla tradizione colta della musica occidentale moderna (Beethoven e Vivaldi); dall’altro, dalle mode pop più recenti (la new wave, il free jazz punk e la musica etnica africana). Non può essere casuale che due brani, sia pure molto diversi, ma inseriti nello stesso disco in alternanza a brani stilisticamente opposti, contengano delle strofe così simili. Come non può essere casuale che Segnali di vita e Gli uccelli facciano entrambe riferimento, la prima a «meccaniche celesti», la seconda a «geometrie esistenziali», intuite osservando delle luci in lontananza e degli stormi di uccelli in volo. Cioè, sia nell’uno che nell’altro caso, delle immagini d’aria. Esiste insomma un progetto strutturale che stringe assieme questi nodi, progetto che non viene mai effettivamente esplicitato, ma appare quasi in controluce, attraverso somiglianze musicali e testuali, o parallelismi di immagini. Ma – e qui vorrei avviarmi a una conclusione – che cos’è che tiene insieme questo progetto? Su che cosa, insomma, si regge l’intera impalcatura dell’album?

La mia opinione è che Battiato, pur non creando un vero e proprio concept album (almeno, non nella maniera dei Pink Floyd o degli autori del prog rock in generale) abbia comunque messo in scena il percorso di un personaggio, di un suo alter-ego, che in definitiva ha il compito di indicare all’ascoltatore un cammino, diciamo, di “purificazione”, di abbandono degli elementi più bassi e cacofonici del presente in direzione di uno stato meditativo-contemplativo. Dagli scarti culturali variamente montati in Bandiera bianca, al trasporto euforico di fronte al volo degli uccelli; dalla “disforia” di chi cerca disperatamente un «centro di gravità permanente», all’”euforia” di chi canta il sesso e i suoi «incantesimi», come in Sentimiento nuevo. Ed è qui, nel brano conclusivo, che Battiato forse allude a una soluzione, componendo una canzone musicalmente affine al filone “disforico”, ma dai contenuti decisamente opposti. L’erotismo, appunto, ma un erotismo allegro, spensierato, lontano dagli schemi borghesi dell’amore-passione o dell’amore come fedeltà coniugale, ispirato semmai alla «lotta pornografica dei greci e dei latini» e alle «geishe» che «si preparano all’amore» – insomma, un erotismo come partecipazione di tutti i sensi a un progetto di liberazione e ridefinizione dell’io, porta d’accesso a un «sentimento nuovo» del mondo e delle cose.

Certo, il suo percorso di purificazione Battiato lo compirà definitivamente solo nei primi anni ’90, quando pubblicherà due dischi meravigliosi, Come un cammello in una grondaia (1992) e Caffè de la Paix (1993), esplicitamente ispirati alla filosofia del mistico armeno Georges Gurdjieff e colmi di riferimenti spirituali e religiosi. La voce del padrone è ancora un disco incipitario, ma la sua importanza sta anche in questo: nel contenere delle indicazioni, delle allusioni, un progetto, appunto, anche se ancora in fieri, di contestazione dei valori della civiltà borghese occidentale in direzione di un rinnovato interesse per i misteri del Cosmo, per la meditazione e per la mistica. Un percorso scisso tra la “disforia” di chi si sente intrappolato nell’inautenticità della vita contemporanea, così tristemente in balìa degli eventi della Storia (non dimentichiamo che appena un anno prima di Bandiera bianca ci fu la strage della Stazione di Bologna, da cui, forse, quegli «idioti dell’orrore» sprezzantemente cantati), e l’”euforia” di chi, meditando, riesce a captare minimi «segnali di vita» dal mondo circostante – a captarli e a organizzarli in un progetto organico di trasformazione dell’io. Un diario, insomma, un quaderno di appunti, ancora sbozzato e discontinuo, ma coerente: ecco cos’è La voce del padrone – il diario di un giovane mistico in cammino.

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